LA VOCE DEL DIÀNTENE di Euro Puletti «Salvatico è quel che si salva».1 Leonardo da Vinci
«Homines, vetere more, ut ferae in silvis […]». Vitruvio
«In tristitia hilaris, in hilaritate tristis».
«Amo ’l cielo co’ la sua grande forza, e tutto quel che de raggiùngelo se sforza […]».
«Quanno cojjéte le nnèspole piagnéte, perch’è l’ultimo frutto ch’averéte […]».
«E, allora, il Diàntene, presomi in braccio, mi condusse fin sulla cima, e, là, mi indicò le vie della montagna […]».
«E voi Fauni e Silvani, irchi coll’effe, che dura avete al capo ampia ceppaia, del mio dir breve non vi fate beffe […]». Menzini
«Io so’ Chillo, non so’ ’n billo, io so’ Chillo, non so’ ’n pollo: tutti jj’òssi te li sbróllo!». Chillo de Fischietto
Questa che presento è una satira di vari aspetti del mondo moderno, stigmatizzati dalla salace e tagliente lingua del Diàntene. Dietro questo nome,2 arcano e suggestivo, arcaico e strano, si cela un personaggio di pura fantasia; un abitatore fantastico del Monte Cucco, una sorta di Pan nostrale, un satiro rustico e bonario, celato per millenni dalle inestricabili macchie della montagna e protetto dalle sue mille, misteriose grotte. Il Diàntene è uno di noi, è un essere alla mano che beve vino e mangia prosciutti, ma ha un “gravissimo difetto”: dice sempre la verità. Per questo è braccato e, per questo, ha scelto la vita solitaria, lui, proprio lui che amerebbe, al contrario, le allegre comitive e le belle… “figliuole”. Ma anche queste ultime, ahilui, lo fuggono sempre, atterrite dal suo orripilante aspetto che, in realtà, cela, come in Bertoldo, un… « […] tant’alto e nobile intelletto. ». Il Diàntene parla in dialetto, perché, come lui, la nostra parlata è schietta, semplice ed immediata. Il suo animo poetico lo fa esprimere in versi (endecasillabi, “dodecasillabi”, ecc.), ma, dietro l’apparente idillio, si cela la tragedia di un mondo che va a rotoli, nonostante la sua voce di vibrante protesta. Oggi nasce il Diàntene, a pochi mesi soltanto dalla morte di colei che me ne fece nascere l’idea, parlandomi della bucolica infanzia di sua zia, trascorsa, sul Monte Cucco, fra i verdi pascoli de La Fida. Alla memoria di Anna Bucciarelli (“Annetta”), una donna semplice e arguta di Villa Col de’ Canali, dedico queste burlesche e sconnesse rime. Un giorno, ero ancora bambino, rimasi affascinato dal racconto di una vecchia contadina delle mie parti. Ella, infatti, mi narrava come, ancora fanciulla, pascolando il suo bel gregge di pecore sui verdi pianori che bordano, ad oriente, il Monte Cucco, avesse sentito, più e più volte, il richiamo di un misterioso Essere, che abitava sotto l’orrida balza de La Fida,3 in uno dei più arcani recessi calcarei della Montagna: la voragine Bocca Nera.4 L’Essere, mi disse la vecchia, si chiamava Diàntene ed era mezzo uomo e mezzo caprone. La vecchia continuò il suo racconto, dicendomi che la Creatura aveva corpo muscoloso, braccia lunghe e mani grandi, ossute, pelosissime e piene di vene, che affioravano come le nodose radici di un albero da un tappeto erboso. Ma fu la descrizione del volto quella che più mi colpì: i grandi occhi neri, il naso lungo e affilato, la bocca sempre stirata in una smorfia ironica e beffarda e, infine, la bianca barba, lunghissima e cespugliosa, mi trasmisero un misto di paura ed attrazione insieme che mi inchiodava letteralmente al terreno. Per un motivo inspiegabile, tuttavia, quel giorno stesso volli salire al Monte Cucco e dirigermi verso quel pauroso antro, nel quale la vecchia mi aveva indicato la sicura dimora del grande Essere della Montagna. Allora, d’improvviso, giunto davanti alla bocca della vasta spelonca, e oltrepassatane la soglia, lo spazio si allargò, il tempo si fermò ed ecco che, finalmente, vidi. Vidi non con gli occhi, ma con l’anima, e vidi ciò che avevo nello spirito. Vidi l’Essere che, sorridente, veniva trotterellando verso di me e mi prendeva in braccio e mi portava all’esterno, mentre, tutto attorno, cadeva fitta la neve, a placare ogni dolore dell’anima e del corpo. Credevo di sognare, ma, pizzicandomi, sentii dolore, e allora capii che non stavo dormendo, ma non ero neppure perfettamente desto. Questo stato liminare mi preservava dalle emozioni troppo intense, che avrebbero certo potuto ferirmi, ma non mi impediva di vedere, udire, annusare, toccare un mondo che, finalmente, tornava alla sua unità primigenia. Provavo simultaneamente tutte queste sensazioni e, pur rimanendo sempre me stesso, non differivo affatto da quelle balze che ora, in braccio al Diàntene, vedevo stagliarsi imponenti sopra di me, intagliate nel diamante purissimo del cielo. Erano state loro ad aver voluto che, un giorno, una minuscola parte di esse si staccasse e assumesse il pensiero e la coscienza e, con essi, il dolore e la morte. Il Diàntene mi portava con sé e, trotterellando, mi mostrava il suo regno, ormai ultimo feudo di una schiatta estinta, quella delle creature senza malizia. Ed un fanciullo, infatti, sembrava il mio forte amico, quando, mostrandomi, con orgoglio infantile, ora un albero del bosco, ora un animale, ora un ruscello od una grotta, me ne spiegava l’importanza e la sacralità. Ci fermammo di fronte ad una parete rocciosa, da cui scaturiva, con forza, un imponente getto d’acqua gelida e squisita, che, rimbalzando e scivolando, si gettava in una stretta e profonda forra, ove il suo fluido elemento veniva inghiottito dall’assetato Essere della Montagna. Il Diàntene allora si inginocchiò e potei così vedere nitidamente il suo forcuto zoccolo caprino e contemplare, alla mia altezza, quel grande volto silvano, i cui occhi avevano abbassato le palpebre. Mi sembrò, allora, di sentire un bisbiglìo come di preghiera e, guardatolo meglio, vidi che l’Essere piangeva. Vedendo una Creatura così possente piangere e scendere grosse lacrime su quel volto silvano, rugoso e cotto dal sole di mille estati, pensai ad un calcinato deserto che, dopo tanta siccità, riceve le prime gocce di pioggia e le beve e le accoglie nel suo seno riarso. Il Diàntene, strappandomi bruscamente ai miei pensieri, d’improvviso si alzò, e asciugandosi le lacrime con la grande mano rugosa, prese a guardarmi, e, guardatomi, scoppiò in un riso fragoroso, in tutto simile al gorgogliare della sorgente. E riso e gorgoglìo si mischiarono e si fusero tanto e così bene che non potei più distinguere quale nascesse dalla roccia e quale invece uscisse dall’ampia bocca dell’Essere. Il Diàntene, vedendomi visibilmente turbato, si affrettò allora a dirmi d’aver pianto perché ricordava il passato, quando, ancor giovane, veniva con i suoi simili a bagnarsi a questa sorgente, a bere quest’acqua e a purificarsi. Egli, poi, volle rinfrescarmi le tempie con quell’acqua gelida e lustrale e farmene bere un sorso, dicendomi che quella era l’acqua della vita, l’acqua che purifica, che feconda e guarisce. Mi disse pure che era stato un Santo a farla sgorgare per dissetare gli uomini e gli animali.5 Fattasi sera, l’Essere mi riportò all’antro e, qui, dopo che ebbe acceso il fuoco, ci sedemmo in terra. Allora, io iniziai ad interrogarlo sulla sua vita e sulla sua concezione del mondo contemporaneo.
Intervista immaginaria al Diàntene, da parte dell’uomo moderno, nella sua caverna sul Monte Cucco, sotto alle balze de La Fida
Intervistatore: «Signor Diàntene, come vede lei, dal suo eremo del Monte Cucco, il mondo moderno?
Diàntene : Vo’ l’ sappéte mèjjo de me de siguro, ch’ abitate ’nte ’n 6 mezzo a la baldoria de ’sto mondo che d’èsse ricco e de fa’ soldi sol se gloria. Ma si l’ volete sappe’ da ’n pòro vecchio, la verità ve la dico ’nte ’n 7 minuto: l’òmo moderno è matto ’nte la 8testa, perché ha perduto de Dio la fede co’ l’aiuto. ’Nvece da seguita’9 ’sti cieli tersi, spersi ve sete giù ppi stradelli avèrsi.10
I.: Allora lei crede che la perdita dei valori sia la causa principale della decadenza dell’uomo moderno?
D.: E’ giusta, dite bene e nno’ sbajjàte, anche si tante parol che bagajjàte11 io ’n le capisco e, spero, me scusate; ma ’l senso ’n m’è sfuggito, ché ’l valore, è quello d’èsse òmini d’onore, da ’n critica’, da nn èsse birbi o ciòrni12 e da le mójje da ’n gne13 métte i còrni14.
I.: Ma mi dica, piuttosto, com’è cambiato l’uomo moderno rispetto all’antico?
D.: Eh! Si ve l’ésse da di’, ’n fenirìa più, ché d’òmini veri ogge ’n ce n’èn più. L’òmo moderno è bólzo, racchio e fiacco e quasi ’gni matìna15 ci ha ’n aciàcco. Ranca su16 la sera, scènde a la matìna: tutt’al giorno jje dòle la schina. Ma ’n te vedi, guàrdete ’nte ’nno specchio, che te sai bólzo, racchio e parghi ’n vecchio. Ma guàrdeme da me, che ci ho mill’anni, eppur del tempo non arsento i danni. So’ ben fischiardo17 e ’ndiavolìto e duro, sono velloso, schietto, te lo giuro. Da se’ che18 vivo, Diàntene son detto, ché rido, zompo, salto e ’n ci ho ’n difetto. Da tutte le donne io je piacio, da da cima’19 ’l Monte a da pièdi20 al Chiàcio.21 Sun Monte Cucco sto sempre ’ncuccàto,22 comme fa ’l frego quanno s’è filanzato.
I.: Signor Diàntene, vi è, da queste parti, qualche rappresentante superstite della nobiltà terriera d’un tempo, di cui lei sia rimasto profondamente amico?
D.: Ser Gvererivs de Sirca, omnivm Saragarvm Comes, Scariali Marchio, Castri Veteris Dvx, Carpenacei Princeps, Sircae rex. die dominica vigesima octava maii mm evrvs pvletii de villa collis Canalis curiae Castri Collistacciarii hoc elogivm, libenter, scripsit:Fra gli amici miei, il più vero, Simonetti è ser Guerriero. D’ogni Saràga il Conte: il bel sol ti splende in fronte! dello Scariàl Marchese: uomo schietto e assai cortese! di Castelvècchio il Duca: che fortuna ti conduca! Principe di Carpenàccio: io sarò il tuo destro braccio! A te, Re degli Scircanti, lancio un grido: sempre avanti! la tua pùbere ragazza, nella qual la vita impazza, qual dolcissima donzella, sia, di te, la fida stella!23
I.: Quali sono, a suo avviso, gli ultimi puntelli che consentono ancora all’edificio del mondo attuale di non crollare del tutto e rovinosamente e di giungere, ancora in piedi, sino al terzo millennio?
D.: “Legno per punta, e donna per piano, arèggon, m’hai da crede, ’l mondo sano!”.24
I.: Come fa a mantenersi così in forma?
D.: Camino su ppe’ ’l Monte a la matìna, magno la ròbba sana e genovina, rispiro l’aria bòna e soprafina, po’, qualche volta, ve l’ dico ’n confidenza, che co’ le donne so’ ’nna vera lenza; però ’mojjàto non me sono mai, per evita’ mugugni, strilli e guai. “Si ’na mójje bòna e brava vòi ancontra’, troppa porcheria te tocca bucina’! È de vipre ’na mela ’nte ’na balla: troppi pizzichi hai da pia’ per altrovàlla!”25 Vivo da solo, ma, quanno me pìa, do ’l ciàffo26 da le donne e… chiappo via. Ma mai senza prima dàjje ’n fiore, comme pegno sincero del mio amore. Loro èn contente e me fònno ’n sorìso, che me pare già d’èsse ’n Paradiso. Quann’è la sera me sento smagnóso,27 d’anda’ a fare l’amor desideroso, la mójje non ce l’ho, e manco la vòjjo: ma bruschetta non se fa se non c’è l’òjjo. Le donne tutte quante, lu’, ’ngarrìva, ma, coda tra le gambe, ppo’, s’arnìva, perché la donne più forti ènno del Diànte e più birbe, ’m bel po’, de ’nn’’estofante.28
I.: Come fa, signor Diàntene, a tenere così curato il suo folto vello?
D.: Comme me alzo, me do ’na scosàta29 e la peliccia ’n l’ho più scaruffàta.30
I.: E il resto del tempo come lo passa?
D.: Pianto l’orzo, la biada, ’l farro e ’l grano su ppi31 pratoni de Ranco dal Piano.32 Prego quel Monte che, quann’ero ’n fio, era bello, selvaggio comme ’n dio. E prego ch’artorni bello comm’era, ché da ’n Monte me l’òn fatto miniera. Me l’ònno ’sassinato, ve lo giuro, co’ la scusante da rendéllo puro.
I.: Come fa a superare brillantemente caldi e geli?
D.: Quann’è la strina armango ’nteghìto33 ché ’n ci ho nisciuno che me fa ’n vestito. Ma ’l pelo ce l’ho fitto, ’n lo vedete? ’n ce cape 34manco ’l pettine ch’avete, ’n ce cape manco ’no spillo a martelate, provate co’ la mano, su, slisciate! ’L peggio è ’l caldo che non s’arifiàta che te pìa vòjja de ’na gran mollata. L’unica è da stratasse35 giù ppe’ ’L Cupo,36 cólco da la merìgge37 de ’n sambugo. A volte po’ me tuffo drent’a ’n gorgo, me sciacquo, aruffo ’l pelo, e po’ risorgo. So’ ’l Diàntene e so’ più vecchio del “Cucco”, so’ forte comme ’n toro, più de ’n mucco.38 Comme ’l bóssolo, io so’ semprevèrde: fòra ’l vèrde! fòra ’l tuo, ché ’l mio non perde!39 Passa ’l tempo, ma io non me ne ’ncuro,40 vo’ pensarete: «E’ matto de siguro! ». Vòjjo bene dal Monte, anzi l’adoro, odio quelli che l’ vòjjeno per loro. Amo ’l cielo co’ la sua grande forza, e tutto quel che de raggiùngelo se sforza. Òmo de fede sono e galantòmo, anche vo’ me parete un bravo òmo. Suvvia, moveteve, su caminate, ché magnamo ’l presciutto e le patate. Po’ ciò ’n vinello che, non ce se crede, fa arnasce puro i morti, e te l’ fo véde. L’òmo e ’l Diàntene, présisi a braccetto, se girono a beve ’sto goccetto da cima al curucùzzo41 de ’n poggétto. Sotto la grande balza de La Fida s’apriva ’na caverna nera, infida. Sott’a la grande roccia, l’antro buio, de voci risonava in gran subbùjjo. Del Diàntene era la reggia proferita42 ’nte la quale passò tutta la vita.
I.: Come è trascorsa la sua infanzia?
D.: Quann’ ero fio sturzavo coi vitelli sui prati verdi del Piano d’Oppièlli.43 Da giovinotto, févo le camporèlle, ’n mezz’a ’ste fratte, ’n mezz’a ’ste fratte belle! Quann’ero giovine, io, givo ad andéggio, e mai pensavo, e mai pensavo al peggio!44 Su la testa ci évo ’na sceponàra, che ’n la scarpiva manco la pinara. Adè’, che de capelli n’ho più venti, scarmijàto so’ da tutti i venti…45
I.: Mi dica, signor Diàntene, com’era questo luogo molti secoli fa?
D.: E’ fatiga, arcontàvvela ’sta storia, ché ’l vecchio, ahimè, ’n ci ha più bona memoria. Ma de ’na cosa m’arcordo esattamente, che la gente ce veniva alegramente. Dal piano su saliva fino al Sasso46 e su ’sto Monte godeva lo spasso. I vecchi nostri féveno ’n bastone, ribùsto47 e bello co’ ’l legno stregone.48 M’arcordo che, su la cima de ’n poggétto, c’era de Giove ’n gran tempio perfetto.49 Drento, ’ni casa de ciascun paese, la grotta pareva de Sant’Agnese, ma gente ce viveva assai cortese.50 Drent’al paese, che Lìsole51 è chiamato, per Sant’Antogno un gran palo ci hon52 piantato, un alto palo de tronchi de faggio, che tant’è longo che jje dìcheno ’l Maggio.53 Drento de L’Ìsole, comme ’n fiòlo nasce, sùbbito ’taccheno a lavora’ co’ l’asce. Si vène maschio se pianta ’n bedóllo, alto e diritto, più mèjjo de ’nno stóllo. Tutto scortecciato un bedolletto, col fiocco azzurro, in cima, e ’l fuciletto, col fuciletto e le rame del vèrde, perché la vita nn’ésse mai da perde. Si, ’nvéce, poi, jje nasce ’na fia, ch’essi sùbbito affìdeno a Maria, per festeggiàlla, è ’na gran salciaia, che tésti, sùbbito, anfìlzeno ’nte l’aia, una salciaia, e cento fiocchi rosa, per quella che sarà, ’n giorno, ’nna sposa.54 Quî Umbri antichi, detti già Clavernii, dumiladucento son passati inverni, vìveno oggi, drent’a ’na caverna, che tutti quanti chiàmeno Chiasèrna. Chi Chiasèrna loda, sùbbito se sbroda, dicendo ’nno sfondone ’m bel po’grosso, perché lodar poduto ha solo ’n fosso. Abondanza c’è sol de qualche vena e i raggi del sol li vede apéna. Tutti i paesani stan drent’a ’sto fosso: l’Aguto e ’l Catria jje càschen guasi adòsso.55 O Chiasèrna, tu sai da’ sempre la guèrna, da i viandanti, essèndojje taverna,’nte la notte del pecàto sai lucèrna, ’nte la fede salda salicèrna!56 ’Nte ’l paese, che Valdurbìa57 è nomato, Orlando paladino ci ha lottato, e, ppo’, ci ha vinto, con grande volontà, de fa’ trionfare la Cristianità. Quei del paese, volendolo arcordare, Corno quel monte presero a chiamare, Corno dicendo il santo suo olinfante,58 che sonar vòlse de morte ’nte l’istante.59 ’Sto lòco, ppo’, comme me disse ’nn’òmo, i vecchi nostri ’l nomàveno Còmo.60 Chi loda Valdurbìa loda ’nna via, de gran passaggio de pellegrini in scia, lodar poi vòle un eremo antico, ’na chiesa, ’n ospedale in loco aprìco. 61 I boschi èron vetusti e matriàli;62 le bestie èreno assai particolari: c’era ’l lupo co’ l’orso e col camoscio, la lontra, ’l cervo, dal pelame róscio. Si, dóppo, te volevi magna’ ’n frutto, trovàllo lo podevi ’m po’ per tutto.63 L’ultim’orso, che toquìne è nato, tra Segillo e Fossato fu ’mazzato. Era l’anno milletrecentootto, quanno che ’st’orso fece de sangue ’n fiòtto: de Perugia, furon cacciatori, questo grand’orso, fieri, a fare fòri. L’orso del Cucco, ch’era grande assai, da quel di’ ’n poi non s’arvidde mai.64 Ade’ ce vène ’n giovine barbuto, che dal primo momento m’è piaciuto: è dritto65 e schietto e ci ha ’l cervello fino, pare ’n gran re pure si ’n ci ha ’n quadrino; è forte e schietto e ci ha ’l cervello bòno, me pare ’n re che regna senza trono. Euro o Eure66, je dìcheno da ’tisto,67 che tutto je possi di’ meno ch’è tristo.68 Èvero o Lèurolo69je dìcheno da lue, ch’è paciènte70 e manzo71 comme ’n bue. Da se’ ch’è nato72, ’sto frégo73 vène amato, perché da tutti quanti ha rispettato.74 ’L patre de ’sto fio se chiama Ivo, dai vecchi del paese detto Vivo, per via che fèrmo lue ’n ce stéva mai, facèndojje da tutti danni assai, per via che fèrmo nno stéva ’n minuto: apéna lue partiva già era arnùto.75 Da tanti altri era detto Livo, perch’era vivo, vivo, vivo, vivo. A voi tutti, ch’abitate ’nte ’sto mondo antico, un consìjjo vòjjo da’ da vero amico: “cojjéte le nnèspole e piagnéte, perch’è l’ultimo frutto ch’averéte…”76 Tutto ’nte ’l mondo è creato col fine77 e non c’è rosa che non ci ha le spine. Quanno, del mondo, verrà la finazione, beati quelli, de Gubbio, ’nte ’l Cantone;78 quanno del mondo verrà ’l grande corùccio, felici quelli, de Gubbio, ’nte ’l Cantuccio;79 Quanno del mondo verrà ’l grande gastìgo, beati quelli da Schiggia al Fosso Rigo…80 èllo véggo, èllo véggo ’l dio ritondo,81 ch’arimbàlta, ch’arimbàlta tutto ’l mondo … ’l sangue, comme l’acqua, corre pe’ le strade: da tutti quanti su la testa arcàde.82 E, dóppo, vedderìte, ’nte ’n momènto, de róscio coloràsse pure ’l vènto! E ’n mezz’a ’n ravastìo, de tròni e lampi, sangue vedrìte tracana’ da i campi. ’L gran tremòto ’nte La Buga sfòga, e ’l pinaróne da nisciuno afóga…83 Beati quelli che, quela matìna, staranno sott’a la mela conventina. Felici quelli, in quela matìna, tolà do’ fa la mela conventina. 84 Quanno del mondo verrà la finazione: de Gubbio, tutti, ristate ’nte ’l Cantone!85 Si del bene vòi fare tu a ’nn’amico: latte de capra e legno de fico!86 Mo’ che v’ho ’itto87 tutto, e me so’ presentato, ’l da magna’ me s’è bell’e ghiacciato. Co’ le mano ’nte le mano stamo! Que famo? le battémo o le grullàmo?88 Col chiacchiara’ me fate tante lagne, ma a scoccoda’89 ’n se còcion le castagne. Momenti s’arfa’ giorno ’n’ antra volta e manc’ una dal fòco n’émo arcòlta. La cosa lunga, serpe è doventàta: si ’l fòco càlla, adìo da la pappàta. “Per san Pietro, e per santo Paolo,90 serpe tutte, e tizzo, gite al diavolo!”. Su, forza, dàtije, zompàmolo ’sto fòco, ché luce, lu’ farà, ancora per poco.91 “Magna e fatte grosso, pia mójje e zómpije adòsso”,92 magna, arlòtta, e, ppo’, scuréggia, dàjje giù comme ’na tréggia!93 Magnamo, su brindamo e festeggiamo, ché domane n’ se sa che fine famo. Vecchio sono e fra ’m po’ tiro i garétti,94 vo’ sete giovine e ’mirate95 i pètti. Ahimè, so’ tanto duro, che disdetta, che me se tàjja solo co’ la ’cétta96 … ma la merólla97’n mezzo ce l’ho schietta… fòri so’ ormai bell’e che fràido98, che chi me guarda dice: “quant’è laido!”. E pensate che da giovine ero bello, e nisciuno m’éva fatto ’l bigarèllo.99 Peggio sto che ’na pècora de marzo…
Pècora de marzo100 «So’ ’na pècora de marzo, si me cólco,101 non m’arràlzo,102 so’ ’na pècora de marzo, si m’amàlo,103 vengo arso, so’ ’na pècora de marzo, si me sperdo,104 so’ scomparso».
Ma vòjjo tira’ avanti pe’ ’n pezzetto, finché ’sto Monte mio artorni perfetto. Vòjjo leva’ beghe odi e rancori de ’sto paese ch’èn ’nuti da fòri. La pulitica ha rovinato tutto, la concordia co’ la pace ha distrutto. Jje dìcheno pulitica, ma è zozza, ché chi la fa, fratello mio,… s’angózza!105 La birbizia,106 ade’, co’ la birbèdine,107 de tutto ’l mondo hon già preso le rèdine!108. “Te sai breccia, io so’ sasso, te sai birbo, io te passo!”… c’ho ’n biciòccolo de sasso, te c’hai ’n ròccolo de grasso, io de sasso ’l sesso, te ’m pezzo d’alésso!109
M’òn càccio dal paese ch’ero bòno, mo’ su ’sto Monte pur cacciato sono. Nn’ ho pace ché me vòjjon fa la festa, perché verità dico a chi nn’artesta110. Vengon da fòri certi musi111 brutti, che ’l Monte è tutto già pieno de lutti. “A guarda’ è mèjjo ’n bel prato fiorito, ch’a véde ’n brutto muso ’rugginìto”.112 Chi mette le ràdiche113 jja fatto, io dico solo ch’è ’n povero matto. L’òmo moderno ’n ci ha più religione, e róppe,114 pacca, rubba e vòl ragione. Stólla115 le rame, scarpe le piante e i fiori, lascia la zozzerìa116 coi maleodori. “Magna grazia de Dio e arfa’ la ppèsta”,117 crede da me, che lu’ è ’na brutta bestia. Quel ch’òn da vede tutti i giorni ’sti occhi, toquì è tutta ’na zénna, cocchi! 118 Ma si chiappo ’n tortóro119 ’na matìna te la fo vede io che sonatina. Perché “’l bòno ch’è doventato tristo ’n l’ha perdonata più manco da Cristo”. Alóra sdógo,120 tronco, ciacco e pisto: farò quel che finor nisciuno ha visto…
I.: Mi dica, signor Diàntene, si è mai sentito superiore agli altri? ha mai pensato o voluto tradirli o far loro del male, profittando delle loro debolezze?
D.: Còcco mio, a ch’ora fa la luna nòva? Va’, ’m po’, giù ppe’ le cóve a còjje jj’òva!121
I.: Saprebbe fornirmi una definizione, il più possibile sintetica e concisa, della natura e delle attitudini caratteriali, ivi compresi i difetti, delle popolazioni dei paesi di questa parte dell’Appennino?
D.: Tutti matti ènn’i Gubbìni;122 Nobilòmini a Cantiano; Borsaròli de La Schiggia; Lumacàri de La Costa; Greci o Grèggi de La Villa; Guèrci e gobbi a Costaciàro; Zìngheri ènn’i Sigillani; Cavaciòcchi del Purello; Grattasàssi èn su ’n Fossato.123 Zoccaróni a Colbassano;124 Lumacàri al Palazzolo;125 Pulentóni126 quei de Gualdo;127 Tutti èn Prèti su ’n Nocèra;128 Marri quei di là dal monte.129
I.: Non crede, per caso, che gli uomini di oggi, rendendosi finalmente conto di stare seguendo una strada sbagliata, possano ravvedersi ed iniziare, così, un nuovo stile di vita, fatto di pace e solidarietà? E dove crede che si trovino le persone più ottuse, arroganti ed inutili che ci siano su questa terra?
D.: Le cèrque mai meràngole nn hòn fatto130 e, pianta vecchia, ’n s’arindrìzza131 affatto. Cèrqua più grossa, che mai nn ha fatto ghianda,132 trovàlla la potrai do’ se comanda.133
I.: Mi dica, signor Diàntene, come giudica le esplorazioni speleologiche?
D.: S’èren messi tanti lumi su la testa, che m’era parso ’n bel giorno de festa; ma, dóppo, ho visto presto che la luce non sempre verso ’l mèjjo ce conduce. De fatti, poi, qui esseri selvaggi, dal Monte jj’ònno fatto i primi oltraggi. Ònno zozzàto134 commo li maiali ’sto loco pien de segni celestiali. De scritte ònno arcoperto le pareti, de carburo òn rempìto i scalapéti.135 Propio ’sti posti che tanto èron politi che ce dormiveno i Santi coi romiti. Se dice che San Giròllimo dottore ’nte ’ste bughe ce passò diverse ore.136 M’ arcordo, poi… ce fece penitenza… quel Tomasso, sesant’anni in sofferenza. Cantava tutto ’l giorno, e ’n c’éva gnènte e ’n déva mai pillòtto da la gente.137 “A la Costa San Savino nacque questo Santo fino,138 poi, partito assai piccino, al deserto139 andò perfino. Lue, tolà, fu, al tutto, morto al mondo, benanche che birava e era ritondo.140 I miriàcol sua èn tanti,141 ch’a contàlli142 tutti quanti noi mai sarem bastanti, ché sta in Cielo ’n mezzo ai Santi”.143 Si da Vo’ prego, Tomasso, de siguro, ’n m’ampatàsso: sempre trovo la sortita dal pantano de la vita.144 Vo’ abitaste ’nte ’n tugùro, mo’, nte ’l Ciel, state siguro! Docché ’l Sentino se sposa al Perticano ce sta la chiesa de Sant’Emiliano, drent’a ’na cella, a ’tésta non distante, ce stécero molte persone sante. ’Spètta, m’arcòrdo, ce stéce, ’nginocchiato, San Domenico, detto Loricato. San Domenico, detto Confessore, ’nte ’ste celle passò diverse ore. Pe’ scampa’, seconda, da la morte, féva penitenza anchi San Forte. Si per conosce ’l nome suo favelli: ’l Beato Forte era dî Gabrielli!. Ma per gi’ a véde do’ questo Beato, tutt’al giorno stéva ’ncarcerato, tocca passa’ per tutta ’n’antra via e gi’ sul Monte de Santa Maria. Dove de ’sta romìta c’era l’ara, ce nasce ancora ’na bella ficara, una ficara, ’nsième ai gigli belli, che ce piantò ’sto santo dei Gabrielli.145 ’Nte ’n quéla grotta ce stéva Sant’Agnese,146 che la Sua vita ’n penitenza spese,’nte ’n quéla buga ce stéva Sant’Agnese, che, la Sua vita, ’n penitenza rese, ed a Dio, tutta quanta, Lei s’arrese. De’n pecoraro, che l’éva tradita, fece de pietra ’na statua ’nteghìta.147 ’Nte ’n quel’altra ce stéce San Donìno148, che pe’ la messa ’n c’éva manco ’l vino. Per di’ la messa ci aveva ’na bughetta, ch’ancora ogge jje dìcheno Chiesetta.149 Si principia’, tu, vòi ogni sapienza, de Ddio, d’ave’ tu ci hai la temenza!150
I.: In che modo Sant’Agnese operò questo insolito “miracolo”?
D.: “Te podesse ammarmi’151 te, pecore e cane, co’ ’l curtello e ’l pane su le mane!”
I.: Non avrebbe, per caso, da raccontarmi qualche miracolo un po’ più convenzionale?
D.: Del Monte Catria ’na balza vulticàta,152 de sant’Antogno la mano l’ha fermata: ade’ sta bona giù la Val del Sasso e ’n fa più danno ’sto spallato153 masso.154
«Sant’Antògno mio de legno, Da pregàvve non so’ degno, Ma de dìvve, a l’ostensorio, Fate grazia, o sant’Antògno!’Nunche155 grazia noi volémo, A sant’Antògno ricorrémo».156 Voi treddici grazie al giorno fate,E d’ogni brutto mal ce libberate.157
E quela fonte, da ’n santo òmo alto, fu fatta nasce chiamato…Romualdo;158 da quel sant’òmo che la badia de Sìtria volle fonda’ comme ’na nòva Nìtria.159 ’Nte la badia che, lu’, t’éva fondato, per ben sett’anni ce fu ’ncarcerato, per ben sett’anni ce fu ’mprigionato, dal monaco Romano calunniato, per ben sett’anni ’nte ’na cripta archiuso, vittima certamente d’un abuso. Ma, per suo mezzo, Dio fece un miracolo, che da tutti chiama’ lo fece oracolo. ’N capesciòtto jje dettero a magnare, drent’a l’òjjo volsuto cucinare, ’nsomma, un pesce, jje décero fritto, purché ristasse sempre bòno e zitto. Ma quisto Romualdo, un bel matìno, lo dà da l’acque fresche de l’Artìno, e, tanto prega Dio, ognun stupisca, che fa che, fritto, lue s’arinvivisca. I capesciòtti ’nte l’Artìn viventi, da quel dì, in poi, fûro diferenti, coi corpi loro tutti pintichiati: ’nti altri fiumi mai l’honno altrovati!160 Sopre La Scirca c’è ’n’aquila de sasso,161 poco più ’n su, la Grotta del Masso.162 Sopre Segillo c’è ’na balza scura, de le Lecce chiamata Spaccatura; su ppe’ ’n toppetto, de ’sta balza pizzuta, lo strano Orto ce sta de la Cicuta, ch’è ’na pianta velenosa tanto, che, si la magni, t’altrovi al camposanto. Ma, per fortuna, “chi asàggia la cicuta, la ciàncica su ’n bocca e, po’, la sputa”. Ma, pe’ scarògna, chi magna la cicuta, sta pur certo che lue non la risputa. 163 De Segillo, sul monte, c’èn le Cèse, che così ènno dette, ché venìvon fièse.164
I.: Vi erano romitori su questa montagna?
D.: Si ’sta memoria mia ’n poco va ’ndiètro, quello vedo de San Pietro Ortichéto.165 Ma ascolta bene, e resta de stucco, de tutti ’l mèjjo era quel de Monte Cucco!166
I.: Chi furono i primi e più importanti esploratori di queste grotte?
D.: Ce fu Adromando167 ’nsieme a Ludovico,168 po’ ce fûr altri,169 ma non ve li dico. Po’ ’l marchese Benigni Agostino,170 che tutti ad arcordàmmeli sto fino, po’ de ’sto Monte entrò fin’ai budelli… quello de Gubbio: Giròllimo Gabrielli.171
I.: Quali sono le altre inquietanti e pericolose presenze, che, come mi accennava, da qualche tempo hanno preso a minacciare il suo stato di beatitudine e la medesima esistenza dell’intera sua montagna?
D.: “Io le véggo, ma ’n l’anségno: sott’al Ponte del Ponticéllo”.172 Drento de me arsènto a urla’173 ’na lupa: io l’arconosco, se chiama Bestia Cupa,174 po’ de ’sto Monte ’nte la panza vòta ce sta ’nguattàta la strana Bestia Piòta175. Dóppo c’è Malco,176 i Spirti177 e ’l Dragolétto178 che ’n te pìa vòjja mai de gìtte al letto. Ppo’, de le volte, èccote Gnavolóne, ’nti panni, bócco, de ’n grosso saccolóne.179 Ma quelli che te fòn tòrge i budelli180 èn più che altro i mazzamurèlli.181 Su ’n quelo scòjjo, docché ’l Monte suda,182 ce sbròzza183 e spìzza184 la brutta Capra ’Gnuda.185 Drent’a ’sto Monte, do’ l’acqua se crea,186 ce sta ’mbugàta187 la sbiancuciàta188 ’Gèa.189 Giù ppe’ la fonda190 de ’l Fosso del Cupo,191 un essere ce vive ’nsieme al lupo: è ’n diavolo che ci ha fatto ’n giardino192 do’ non ce cresce manco ’l peggio spino. Sott’a ’na balza, do’ ’sto fosso scorre, la traccia de ’nna scarpa vòlse porre.193 Ma, per fortuna, e già n’ho ’ntéso l’ùcco,194 c’è ’n bon gigante, se chiama… Monte Cucco.195 È’ nn’òmo grosso, più bono de ’nna pasta, che si l’ conoschi jje voi bène e basta. Ma de giganti ’n antro ce ne sarìa: e ’l nome suo è quello de Sanìa.196 ’Sto ’nciferìto197 fece fòri Orlando, a quela cima questo nome dando.198 Drent’a la Foce, detta già de Sómbo, dove ch’al lampo s’acompàgna ’l rombo, versa’a L’Aiale, ogn’òmo che risale, arìschia forte da sentìsse male, ch’arancàndo, su per quélo spiómbo, ogni fuscéllo pesa più del piombo. Su ppe’ ’sta foce, dove l’erba bólla, ce sta ’ntanata la Capra Bergólla. Ch’è così detta, perché ’n male grosso, tutto quanto j’asassìna ’n’osso, che così è detta, perché ’n male rógno, tutto quanto jje rovina l’ógno. Lóngo e dritto con corno, ed uno storto, mai da nisciuno, ’tista, ha fatto torto. Salva la pelle, del lupo, dal morso, stando niscòsta drent’a Grotti l’Orso. E, dettoquìne, fa sempre vedetta, perché ’l Maligno ’n faccia la vendetta, e, più che altro, bada che i freghétti, del male ’n càdeno drent’ai trabocchetti. Pe’ smacchia’ ’l bosco, i vecchi pecorari, spesse volte ’dopraveno i somari, ma, mèjjo dî somari, èreno i muli, ’taccati, in imbasciàta, per i culi. Pascelupana, ’na somara bianca, carcava ’n mondo, da l’una a l’altra anca. Su La Strada del Sasso, a Costaciàro, c’è, ’nco’, ’nna Curva, detta del Somaro. Somarari e gavallari ’l Monte guèrna, ma nisciùn batte quelli de Chiasèrna!199
’L brutto Malco bastignando200 ha riso, su ’n quelo scòjjo che ’l demogno ha inciso. De notte, co’ la furia sua passato, ’na smanàta a questa sbalza ha dato. Da quela volta che l’ógno201 suo pontò202 ’nfin’adesso l’orma sua restò.203 Tanti dìcheno ’nvece che fu Orlando, verso la morte senza scampo andando. “Prima che morgo -disse, a quanto pare- ’n cinque fette ’sto Monte vòjjo fare”.204 Quann’a la sera calla giù la sfera, ’m po’ prima che del ciel l’aria s’annéra, de ’sta mane s’alùnghen tutti i déti, toccando ’n punto del monte dei Moréti. ’Nte ’l punto esatto, ’nsegnato da ’sta mano, c’honno setóro ’n grande capitano; si de conosce ’l nome suo c’hai sete… quann’era vivo jje dìsser Narisete.205 Uno di fossi de ’sto Monte vano206 consagrato era al dio Silvano.207 Po’, de le volte, ’niva ,208 giù dal Monte, quel drugolóne209 de Timolaónte.210 Tìmolo211 o Tìmole era detto ’st’òmo,212 ch’era ’m bel po’ foràstico,213 ma bòno. Del Monte Catria, ’nte le bughe214 scure, do’ s’amùcchieno,215 nere, le paure,216 ce stéva nn òmo, lóngo217 comme ’n pìgo,218 da tutti conosciuto comme Zìgo.219 Quann’era sera, dal Monte lue scendeva e la limòsina220 da la gente chiedeva. Si jje la221 dévi,222 guardava223 te e le bestie, si ’gne la224 dévi, te féva le modèstie.225 S’alontanàva,226 comme le farfalle, e déva fòco da tutte le stalle,227 s’alontanàva de parecchie canne,228 e te vedevi ad arde229 le capanne. ’N potere lue230 ci aveva, assai speciale: staccava ’l volo senza avécce l’ale.231 Altri lo dìcheno, ’nvece, ’n gran brigante, co’ la sua banda, furfante e lestofante.232 C’era Cinìcchia,233 Zigo e Malintàcca, si ’l primo picchia, l’ultimo t’aciàcca; Malintàcca, Cinìcchia, c’era, e Zigo, ch’era niscosto giù ppe’ ’l Fosso Rigo.
Del Pont’a Bótte, drent’a ’n brutto sito, niscòsto s’era un famoso bandito. Tutte le volte che l’éveno cercato, lue, ’nte le grotte, s’era rimbugato. ’Nsómma, poco più ’n là de l’altro ieri, ’chiappato non l’éveno mai i carabignèri, ma comme ’nte ’l laccio dà la volpe vecchia, ecco che uno lo ’chiappa pe’ ’nn’orécchia, pe’ ’nna ’récchia lo ciàffa, e lo stragìna, da cima al Pont’a Bótte ’na matìna. Ma mèntre jj’alàccia, strette, le manette, quisto jj’abrànca ’l collo e le basétte, punta i du’ piedi, e, sùbbito, se slanza… giù lo sprefóndo, tenèndojje la panza. Mèntre che vola fra i bracci de la morte, ché tutti sènteno, lue te grida forte: “’Mazzi n’évo dagià, ’nte l’Ottocento, novantanove, e, con te, fan cento!” Prima, però, che jje gìssero a male, i marénghi ’nguattò ’nte ’nno stivale, tutti i marénghi sua, sonanti d’oro, ’nte la panza niscóse de ’nno snòro. Un de tolì, nomato, già, Villétto, li cerca, da quel di’, ma senza effetto. Diversamente, però, fece Maréngo, che col suo fare non poco lupéngo, scovò, ’n bel di’, sopre Ca’ Magiorétto, tanti marénghi, zeppìti, ’nte ’n sacchetto. Tanto fu ricco, da doventa’ baléngo, che, da quel giorno, jje dìssero Maréngo.234
D’un Isolano, ’l povero bisavolo, fu che piantò il Pero del Diavolo.235 Tésto divenne vecchio e matriàle ed aloggiò ’l principe del male. Chiunque passava sott’a quista pianta, fusse stata pure ’na gran santa, ’l diavolo, in person, jje comparìva e la vita, tutta, jje ghiadìva. Dóppo che ’l pero è doventato ’n tavolo, più da nisciuno jje comparisce ’l diavolo. Ma da chi magna sopre quela tavola, non gn’arcontàte, per carità, ’sta favola!236 Viddi la léngua, lónga, del dimògno, la viddi lónga, ma nonn’era ’n sogno. Viddi la léngua ròscia, a spendolóne, del dimògno, comme ’n seghettóne. Viddi ’n serpente lóngo, lóngo, lóngo, ch’a mesuràllo non arìva ’nno stóngo. E ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, ’l codino lue stacciàva, ribirato; e ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, me fece, pe’ la ppèsta, ’mpunta’ ’l fiato. I corni viddi lónghi de Bofógno, jje viddi i corni, e l’arbirato ógno. Alóra nn’ància ’ntési, drent’a jj’òssi, che fatto me sarìa porta’ da i fossi. Alóra nn’ància ’ntési, tanto forte, comme l’abràccio ghiaccio de la Morte 237 A Sant’Angelo, detto Doposèrra, che dei ucèlli ’l passo sempre sèrra, ce sta piantato ’n grande casermone, ch’hanno abitato ’n mucchio de persone. De ’sto palazzo, drento a ’nn’erto muro, ce stéva, ben murato, ’nn’osso duro. La testa era ’tista de ’n pòr’òmo, mai sapperìmo si catìvo o bòno. Comme che fusse, tésta tèsta morta, perché mai più ’nte ’n casa fusse scòrta, ficcàreno ’nte ’n bel sacco de lino, con che ’l buttàreno dritto ’nto ’l Sentino, perché ’sta testa non dasse più spavènti, la danno sùbbito da l’acque correnti. Ma, de brugno, più tosto de ’nn’osso, ’sto grugno via ruzzola dal fosso, e, tanto bene, s’avùltica e zompetta, ch’arrèccolo arrentra’ ’nte la casetta. ’Nsómma, a la fine, ’sta testa de morto, sloggio’ chiunque de lia se fusse ’còrto. Dietr’a ’sta casa, ’na tròscia c’era brencia, do’ se buttàreno tanti pe’ l’anguència, pe’ l’anguència da campa’ drent’a ’n palazzo, do’, ’nco’ ’l più savio, sarìa dovènto pazzo. Tanti, ppo’, gìveno a prega’ Michele, ch’era ’nn’arcàngiolo ’n gran bel po’ fidele, a pregàllo andaveno a la chiesa, do’ c’era ’n diavolo da la coda tésa, ppo’, grosso e lagrimevole a vedéllo, c’era, de legno, ’n crocifisso bello. C’éva la faccia de l’omo dei delóri, a cui annalzòrno ’nna marea de còri. A Sant’Angelo, detto Deposèrra, la porta de ’n palazzo sempre serra, de ’n pòro morto la scarnìta testa, che, mai più, chi la vede, ’nn’artèsta. ’Nte ’l paese, ch’è chiamato Tròppola, sempre ce vive, morta, ’sta caciòppola.238
I.: La prego, signor Diàntene, mi spieghi l’origine ed il significato di qualche nome di luogo del Monte Cucco…
D.: Del Sodo sigillan drent’a la valle, che rinsèrreno alte du’ gran spalle, ’n lupo, ’n giorno, ce lasciò la pelle per vole’ magna’ capre e pecorelle. Su ’nno scòjjo, ’l Balzone nominato, sarà quel giorno ’l suo nome ricordato. Mèntre che déva adòsso a ’na capretta, quista se scansa, comme ’nna saetta, e ’l lupo s’aritrova, vis’a viso, co’ lo sprefondo, sotto, al’improvìso, co’ lo sprefondo sotto de la balza, do’ la fugga, ch’aveva, giù lo sbalza. Cade ’sto lupo, e tanto batte i denti, che de fame mai più patirà i stenti, mai più la fame patirà, né ’l gelo, perché col vizio perderà anchi ’l pelo. Tanto forte sbatté ’sto lupo i denti, che l’animal ’n sarà più fra i viventi. Perché ’sto lupo lasciò qui tutti i denti, risero quei dei cacciator contenti. Quel che ’nna volta era solo ’n balzo cupo, ade’ chiamato vien… “Balzon del Lupo”.239
I.: Mi dica, signor Diàntene, quelle schiere di pastori che, come si narra, con sonore zampogne, riempivano di dolci e grate melodie queste alture, riuscivano davvero a restarsene per mesi intieri lontano dalle tentazioni della carne?
D.: La tentazione al’improviso prende e, strùffa,240 strùffa, ogni fiamifero s’acènde. E’ ché l’omo co’ la vacca non atacca: sinnò, ade’, al posto dei fii loro, de siguro vederiste a zompa’ ’n toro.
I.: È vero, signor Diàntene, quello che si racconta, che, cioè, perfino qualche religioso si lasciava trasportare dal vizio capitale della lussuria?
D.: Siccome che me fate tanta lagna, me toccarà241 scoprìvve ’sta magàgna:242 Un frate da ’na donnetta ’n giorno je disse:“Si de bronzo era sta tònnica,243 mia mora, averéssivo sentito a batte l’ora”.244“Prete sòna e serva balla, tirintèra giù la stalla, si dal prete jje va bòna, prete balla e serva sòna”.245
I.: Quando ha iniziato a provare attrazione per le ragazze, in che modo si rivolgeva loro per conquistarne il cuore?
D.: Da una, me l’arcordo, ’n giorno j’ho ditto: “O lattónza, lattónzola fanciulla, de còre, te portarebbe ’n cavanciùlla…”.246
I.: Ed ella, cosa rispose a questa sua fin troppo esplicita profferta d’amore?
D.: “Su la ficara mia non ce se monta, perché l’è troppo piccola la pianta…”.247 Con chi je géva,248 essa sempre ce géva249 e, quel ch’ja parso,250 lia251 sempre lo féva.»252 Mo’,253 bell’e vecchia,254 dice ch’è pecàto,255 quel che ’na volta nn avrìa256 mai rifiutato.
I.: A parte questi approcci, che definirei quantomeno improvvisati, ha mai fatto una vera e propria dichiarazione d’amore ad una donna?
D.: A ’n bon picióne, un bijjetìn legato, da l’amorosa mia jje l’ho mandato, do’ co’ la penna d’oca c’évo scritto d’amore ’n bel messaggio fitto, fitto: “Dal primo momento ch’io v’ho viduta, vo’ tutta quanta me sete piaciuta, e ’l còre mio per voi tutto zompetta, comme fa ’l becco257 davanti a la capretta”…“O fiolétta,258 o fiolettìna snella, ci hai du’ poccétte259 che me parghi ’n’ agnella”… Parevamo comme du’ fratelli che via vanno ’taccati pe’ i budelli.260 Lia me l’ha data senza ch’je l’ho chiesta e dóppo ’n po’ io jjo fatto la festa! “La natura de la donna è ’na fissura, do’ ce cape ’nna robba lónga e dura e ce scappa ’na téndera criatura”. La porta è, ’tista, detta de la vita, ch’a la festa e a la gioia l’òmo anvìta.261
I.: Quali dolci versi cantavate alle fanciulle, facendo loro le vostre serenate?
D.: “Afàccete a la finestra, o bella mora, dei tuoi capelli ne vòjjo ’na rama, Afàccete a la finestra, o bella mora, te lo farò senti’ ’nsìn’a bon’ora!” “Sorge ’l sole su ’nno scapezzóne262 e ’nte ’l còre me s’è ’nfilzata ’na gumèra263…”264 ’Na Coldagelante265 volevo per amante: sun Coldagelli, io ce lasciai tutti i budelli.266 Comme che l’ho viduta, bella comm’era, ’nte ’l còre me s’è ’nfilzata ’na gumèra…
I.: Mi dica, signor Diàntene, come spiega lei l’iniziale ritrosia delle donne ad ogni approccio amoroso, subito seguita da un concedersi totale e, spesso, davvero sfrenato?
D.: È ché le donne te fòn sempre coscì: prima dìchen no no, e, po’, sci sci!
I.: Ho sentito dire, signor Diàntene, che lei e i suoi simili eravate spesso costretti a coprire lunghissime distanze a piedi, su percorsi assai tortuosi e disagevoli, per andare a trovare le poche femmine che la Natura vi aveva concesso. E ciò lo facevate sia d’estate che d’inverno, col buono e col cattivo tempo. Quando eravate colti da una bufera di neve o da una pioggia torrenziale, oltre agli indubbi disagi che personalmente subivate, non facevate forse stare in pena anche le fidanzate, che vi aspettavano, ansiose del vostro ritardo? avevano forse esse qualche proverbio o filastrocca, tratti dalla saggezza popolare, che le aiutasse a vincere la straziante attesa di vostre notizie?
D.: “E s’è rinnuvolato Monte Cucco: povero bello mio se mólla tutto; e si se mólla, se mólla d’amore: l’acqua lo mólla e lo risciuga ’l sole; e si se mólla, se molla contento: l’acqua lo mólla e lo risciuga ’l vento”.
“Ècco l’acqua,267 ècco ’l vino, ècco Giorgio da ’l mulino”.268
“Si vòi pati’ le pene de l’inferno, a Colmartìn te tocca gi’ a l’inverno”.269
“Canta, chiuìno270 mio, la tua canzona, canta fin’a bon’ora.,271 càntela e sòna, càntela e ’n te stanca’, ché te va bòna”.272
I.: Le ragazze di un tempo ricorrevano forse a qualche pratica superstiziosa per presagire se erano ricambiate dalla persona amata? Interrogavano, poi, qualche entità naturale per conoscere il tempo in cui si sarebbero maritate? E come si comportavano al riguardo i ragazzi? Facevano, anch’essi, per caso, qualcosa di simile?
D. Le freghe e i freghi dicevon coscì, si, proprio adesso, ’l volete arsentì: “Erba rosa, erba rosa, si me vòi bene famme ’na rosa, si me vòi male famme ’na bolla, comme ’n capo de ’na cipolla”.273 “Cucco, cucco, dal becco fiorito, quanti anni ci ho più per pia’ marito?”. “Cucco, cucco, da le penne mólle, quanti anni ci ho più per pia’ mójje?”.274
I.: A cosa attribuisce, signor Diàntene, le molteplici e, in apparenza, immotivate paure che assalgono ed attanagliano gli uomini d’oggi?
D.: Quann’ade’ scènde la notte più scura, da l’òmo d’adesso jje pìa ’na gran paura. L’òmo de ’na volta ’nvece dormiva ’nte ’n tutti i pòsti docché275 lue se ’n giva.276
I.: Ma, più nello specifico, qual è, a suo avviso, il motivo primario dell’odierno disorientamento dell’uomo?
D.: ’Nvece da crede ’nte ’l Verbo Divino, l’òmo d’adesso adora ’l dio quadrino. Amo’ l’òmo è tutto mattemàtico, de le cose, ’nvece de la qualità, lue considera assai più la quantità. ’Nvece da pia’ quello ch’al mondo vène, sempre de più lue te cerca da ottène. Fin’a diéci, ’na volta, sol contava: de quel che ci éva lue s’acontentava. Su la punta contava lue dî diti, ma i nùmmeri d’alóra ènno spariti, ’l solo che t’è armasto ène ’l dieci, quei altri te li dico comme preci: unze, dónze, trénze, quale, qualìnze, po’ vèngheno méle e, ppo’, melìnze, e, ’nfìne, riffe raffe senza grinze. “Mèjjo se stéva quanno se stéva peggio”: dal picco péso sén giti al malinpeggio.277
I.: Mi perdoni, signor Diàntene, avrei assoluto bisogno di interrompere per un po’ l’intervista, perché, all’improvviso, ho avvertito un forte mal di testa. Non avrebbe lei, per caso, un qualche rimedio naturale per lenire questo fastidioso disturbo, che si va facendo sempre più insopportabile?
D.: D’erbe e de fónghi, che ’sto Monte guèrna, ci ho rimpìto tutta la caverna, ma, quanno da alto fortemente dòle: sfoga’ da basso sùbbito ce vòle.
I.: Le è mai capitato di curare delle persone o di dare utili consigli sulla prevenzione di malattie e pericoli d’altra sorta ?
D.: Da ’nna freghìna278 bella ’n giorn’ jj’ho ditto: “Magna le prime tre viole che vedi de l’anno, fia mia, e le malatie tutte, a una a una, giranno via!”.279
I.: Caro signor Diàntene, mi faccia, per favore, un esempio di due cose diametralmente opposte.
D.: L’avedóre280 de la santuréggia,281 la ppèsta de ’na scuréggia.
I.: Ho saputo, signor Diàntene, che lei e i suoi simili, durante quegli inverni particolarmente rigidi, in cui faceva il “nevóne”, scendevate spesso nei paesi pedemontani a chiedere, col vostro canto, che vi fosse donato un po’ di cibo e qualche buon sorso di vino generoso. Come reagivate quando, ai vostri insistenti e melodiosi canti, nessuno apriva le porte per darvi quel tanto desiderato bicchiere di vino? Rispondevate con indifferenza o in malo modo?
D.: “Su ’n Monte Cucco ci ha fatto la neve, e non se canta più se non se beve!”
I.: Come facevate, inoltre, a prevedere il mutamento delle stagioni e, dunque, ad iniziare i lavori agricoli e le pràtiche pastorali che ne conseguivano, senza conoscere affatto il calendario. Usavate, forse, qualche proverbio per orientarvi in tal senso?
D.: “Quanno Monte Cucco mette ’l cappello, vende le capre e compra ’l mantello, quanno Monte Cucco mette le brache, vende ’l mantello e compra le capre.”282
“Genàro283 mette dai monti la parùcca,284 Febbraio grossi e piccoli ambacùcca,285 Marzo libera ’l sole da la prigionia, Aprile, dai bei color, orna la via, Maggio gode fra musiche d’ucèlli286, Giugno attende i frutti ’taccati287 dai ramoscelli, Luglio falcia le messi al solióne,288 Agosto, avaro assai, le rappóne,289 Settembre i dolci grappoli irrobìna,290 Ottobre dei bei vendemmi rimpe la tina,291 Novembre ’mucchia aride fòjje in terra,292 Dicembre ’mazza l’anno e po’ ’l sotèrra”.293
I.: Come riuscivate, inoltre, a comunicare fra voi, quando vi trovavate molto distanti gli uni dagli altri?
D.: ’L solo richiamo nostro era “u-scià-scià”,294 che se sentiva da toquì a tolà.295
I.: Mettevate, per caso, in atto anche qualche pratica per conoscere la durata della vostra vita terrena?
D.: “Pasqua Epifania, che vènghi296 ogn’anno, dimme se so’ vivo o morto ’n antr’anno;297 se so’ vivo, salta e frizza, se so’ morto statte fissa fissa; se so’ vivo, salta ’n poco, se so’ morto te bruci ’l fòco”.298
I.: Pronunciavate anche qualche formula di scongiuro contro il pericolo che, alla morte del corpo, facesse immediatamente séguito quella dell’anima?
D.: “’L morto è morto, è morta ’na cunìa:299 ’n me mori’ te, ’n me mori’ te, ànnema mia!”.300
I.: Ha, per caso, qualche gustoso aneddoto da raccontarmi sulle vicende umane vissute dai pastori e dai contadini del Monte Cucco?
D.: “’L contadino è bòno, ’l contadino ha l’arte e rubba dal padrone la terza parte. Quann’è tempo de le pere, ’l contadino le va a vedere e ce tira ’na sassata, ne fa cade ’na stratàta.301 Quann’è tempo del moscatèllo,302 ’l contadino se capa303 ’l mèjjo e ce lascia ’l graspijóne304 e quello ’l lascia dal padrone”.305 D’arcontàvve ci ho solo ’sta poesia, de cui, però, la storia nn’ è la mia:306
“Su ppe’ ’1 Monte ’na matìna”
«Gìveno su ppe’ ’1 Monte ’na matìna, ch’éva fatto la neve e era la strìna,307 Carlo de Béla, Alfrèdo e ’1 por Ceccone, ’m po’ più ’n su de le balze del Cesóne.308 Le vacche loro èren giti a arpia’ ché giù ppe’ le stalle l’éven d’arporta’. Ché su ppe’ ’1 Monte, col tempo de neve, magna’ nn’avrìen poduto e manco beve. Ma ’nte ’l mèntre ch’essi féveno la sténta tra i réfeni ch’amucchia la tormènta, tutto ’n momènto Ceccone mette ’l piede ’nte ’na buga309 che la neve non fa véde; ed eccote ’st’omone che sprofonda drent’a la bocca de ’na buga tonda. De bracci e mano déce ’na ’largata: sinnò ’sta storia non l’avrìa arcontata. Spauràti da ’sta scena, Alfrèdo e Carlo, tutti e due insieme corren p’aiutarlo, Chiappàtolo con forza, un per braccio, fòri l’ tireno, sbianco ch’è ’nno straccio; 1’ lasceno steso sott’a ’na gran fronda e vann’a véde la buga quant’è fonda; de tanti sassi che ci hanno buttato, nisciuno, ancora, ’l fondo ha mai toccato; s’arconta che ’sta traditóra buga oltre 1’orìvo310 de la terra sbuga. E’ da quel dì, grotta, che te sto a cerca’ma, ’n so comm’è, tu ’n me te fai altrova’; sarà solo ’l por Ceccón da l’Aldilà che, si Dio vòle, me te farà archiappa’.».
I.: Non avrebbe, per caso, da narrarmi qualche altro episodio di vita vissuta, a suo tempo raccontàtole dai pastori del Cucco?
D.:’Na pecorara, un di’, de Campetèlla, col lupo se letigò ’n’agnèlla, e tanto co’ la rócca lo minaccia, per fa’ sfuga’, lontana, ’sta bestiaccia; sbatacchiando la rócca, ppo’, jje grida: “Va’ via, va’ via”, che ’n senta le tue strida!”. Ma, comme ’l lupo, più bòjja311 è de la donna, ’tisto jje scuce la pecora a la gonna. I vecchi de ’na volta, a Campetèlla, da i fiarèlli contàven ’na storiella, che se diceva, ma ’l fatto armàne cupo, che l’éva ditta, proprio in persona,’l lupo: “La voce dei fii piccoli m’ancenderà ’l culo,312 la voce de le donne, me sfuga da le gonne, la voce de l’òmo grande, me fa trema’ le gambe!”.
Là ppi’ Buschi, co’ ’n temporale grosso, cava la Velia le pecore dal fosso,313 ma comme che, da pièdi, fu ’rivata, da ’n grosso ròcchio d’acqua fu slisciata. Pregata la Madonna del Soccorso: ’n bon gruppo de pastori è, tosto, accorso, de pastori, con corde e co’ le scale, per fa’ scampa’, ’sta frega, al temporale. Si ’nn’èreno i pastori, quéla volta, l’acqua, in eterno, se la sarebbe arcolta.
Uno, m’arcordo,314 me l’arcontò l’Anneta,315 ch’ha in Paradiso l’ànnima benedetta. La zièsa316 Pia,317 le pecore parava, e tranquilla col cane se ne stava, co’ ’n cagnolétto318, ch’era ’na bestia fida, quann’ècco ’n animale giù La Fida319; comme lanciò ’nte l’aria nn urlo cupo320, lia321 sùbbito s’acòrse322 ch’era ’l lupo. Presa da la paura, che l’affanna, fa apéna ’n tempo a bocca’ ’nte la capanna.323 Mentre che essa era drento che pregava, fòri era ’l cane che da ’l lupo jje ’bajjàva.324 Al’improvìso, ’sta donna ebbe ’nn’idea: da sbatte ’nsième i du’ zòcchi che ci avéa325. Comme che ’l lupo sente ’sto rimóre, comm’a l’inverno, jje pìa ’n grande trimóre.326 Lascia l’agnella, ch’apéna éva ’dentato, e chiappa, via, cornuto e bastonato. 327 Scappa da la capanna, e ’l Bòn Pastore, essa pìa a ringrazia’, con tutto ’l còre.328
I.: Vi sono più stati cani altrettanto coraggiosi e fedeli al loro proprietario, come questo, che ha strenuamente difeso la propria padrona dall’aggressione del lupo?
D.: De la Schiggia, davanti al camposanto, de Paterniano sott’al lòco santo, ce sta ’nna tomba, che pare ’n sedile, fatta, de fiume, in bigia pietra vile, drent’a la tomba i òssi c’èn de ’nn animale, che più de tutti quanti al mondo vale. Era ’n cagnòlo chiamato “Fido Po”, che, finché visse, ’l patrone suo aiutò, ’l patrone suo, ch’era nn infelice, ’sto bravo cane rese assai felice. De fatti, lue jje giva a fa la spesa, con ’m bel po’ poco facèndojje gran resa. Quanno che mòrse, ’l paese, sconsolato, vòlse che sempre fosse ricordato, e su la pietra fosse scritto, a graffio, un corto, ma bellissimo epitaffio: “Qui sta sepolto il cane “Fido Po”, che fu da tutti amato e tutti amò”. ’Sta scritta, ade’, ’n se pòle legge piùne, l’acqua, da lì, corre da ’n su e da ’n giùne.329
De la Costa, ’l povero Tomasso, a San Giròllimo sott’a ’l grande sasso,330 andò ’n bel giorno per supplica’ ’l priore, da tutti e ognuno tenuto in grande onore, che per nome era chiamato Forte,331 de scongiura’ le bestie da la morte. Morte che i lupi jje stéveno a da’, ’ntanto, che ragionàveno ’l pastore e l’òmo santo: «Vo’ che ’n sant’òmo certamente séte, ’sti lupi, ’mpo’, da scongiura’ vedete… Io li scongiuro -disse con affanno- Ma ’n so dove spedìlli da do’ stanno. Docché li mando loro faranno danno: ènno già troppe le bestie ch’ònno scanno.». Dal bon Tomasso jje venne ’nn’idea, e confidò ’l pensiero che ci avéa: «C’e ’n pòsto solo do’ ’n pòsseno fa’ danno, ma solo utilità, si scannaranno… tutti coloro, o guadàmbio raro, che stanno sul comun de Costaciàro…».332 De falciatori, Romana, a la Campagna, ’na grossa sguàdra se riposa e magna, quann’ècco ch’al’improviso uno se sfiara: chiappa lo schioppo e du’ gran botte spara, ciàffa ’l fucile e jje fa fa’ la fiàra. Quann’ècco Salvator de Mocarìno veni’ a la volta de ’st’omo cretino. Lo guarda ’n faccia e pare che lo sfotte: «’L fucile tuo nno spararà più bòtte». L’òmo t’arcàrca ’l suo tizzo de fòco, e crede ch’artira’ sia per lu’ ’n giòco; quann’ècco, Mocarìno, ’na preghiera, se mette a di’ sul fare de la sera, Quand’ecco Mocarìn, ’l segno de croce, sùbbito far e, poi, dire a gran voce: «In nome, Santissima, de la Ternità per ’n bel momènto più ’l fòco nn’hai da fa’! Polvere e piombo sta’ drent’a la canna, comme Gesù ’nte la casa de Anna». Crede lo sparator che ’tésto è matto, e, ad artira’, lue te prova de scatto, ma per quanto lue i grilletti ha tratto, quello che vòle fa’ ’gne vène fatto. Alóra arpàrla quello de Mocarìno, da tutti considerato un santo fino; ’n fa ’n tempo a gire da toquì a tolà che detto ha dal fucile: “Fòco fa’!”; ’n fa a tempo a gi’ da de qua a de la’, che du’ botte da lo schiòppo333 fa caca’.334 C’era la guerra e la povera Caffétta, de Costaciàro donna bedenetta, arnìva ’n giorno, fii mia, da Pascelupo, col rischio forte che la magnava ’l lupo. Da Costaciàro a Pascelupo giva, tutti i monti varcando, e, po’, s’arnìva. Pe ’l fio Gigetto féva da ’n su e da ’n giù, perché la fame lue ’n patisse più. C’era la guerra, ed era d’inverno, ma lia ’n sappéva che doventava inferno. Là ppe’ la strada c’era anchi la neve, e, ’nte le fonte, manco l’acqua per beve. Su ppe’ la strada, con sua gran paura, ecco che tutta l’aria s’ariscùra: al’improviso se trova fòr de via, pe’ ’l gran travóne ch’acecava anchi da lia. Se sperde e vaga e ’l tempo passa, ’ntanto, dal giorno a la notte, comme ’n lampo. Da la paura, jje cadeno i capelli, de ’n pode’ arvéde, de casa, i muri belli. Essa, piagnendo, prega, e prega tanto, che ’n ucèllo jje comparisce accanto. Zompetta ’tèsto, a lia stando davanti, e po’ la guarda, e par che dica:“ Avanti!”. Sia stato ’n corvo, oppure ’na pernice, da seguitàllo l’ànnima jje dice. Po’, al’improviso, dóppo ’n lungo tratto, lue da la vista jje sparisce affatto. Tanto hanno caminato, passo passo, che la ’Nunziata s’altròva sott’al Sasso. L’ucèllo jje sparisce, e lia te vede, de Costaciàro i lumi giù da piede. Tanto lia ha caminato che te vede arde, splendenti, i Lumi de la Fede. La Caffétta, ormai sentendose salvata, pia a ringrazia’ quel’ànnima beata. Tanti dìcheno che l’ucèllo sparito era l’ànnima del pòro su’ marito. Da vo’ ’sta storia io ve l’ho arcontata, per divve che ’sta donna è, ormai, beata. De ’pèrico lia féva le pozioni: Dio jje dia mille benedizioni! D’òjjo de ’pèrico lia féva ’nno ’mpiàstro: adène arlùccica ’nte ’l Cielo comme ’nn astro.335 Gìveno su ppe’ ’l monte de bonora, prima che ’l sole fosse ’nuto fòra, ce fosse neve, oppure la strìna, per pia’ messa la domenica matìna, pe’ la Strada di Romìti andanti, con passo lesto, ’na sguàdra de Costanti. Tutti varcando Passi Nvalcatóro, tiravon dritti pe’ la meta loro, ch’era de San Giròllimo l’asceta,’l posto scelto per fa’ l’anacoreta, ch’era de San Giròllimo ’l convento, do’ i frati bianchi vivevon con contento, do’ i bianchi frati, detti camandolesi, féveno entra’ le gente di paesi. Presa la messa, chiedeveno l’offerte, per compensa’ le pene sofferte: “Per pia’ la messa tutto ’sto monte én ranco: dàtece, ’m po’, ’n tozzo de pane bianco…”. Nel pode’ vede quel tozzo tutto bianco se rallegrava anchi ’l viso più stanco. Bianco, ’l pane, ’n l’évon mai ’saggiato, ma po’, magnàllo, ’n tempo de carestia, pareva l’ostia drent’a la sagrestia, de Sant’Agnese ’l miracol de la treccia: “Mai più, ’nte ’l tempo de la carestia, mai più noi magnarem pane de veccia!”.336
Monaci E Querce
Cade La Neve, Come Seme A Spaio, Quale Farina Su Un Mulinaio, Quale Fuliggine Su Un Carbonaio. Di Neve, Bianche Fumate, Dai Comignoli, Alte, Levate. Neve Sporca, Neve Nera, Senza Cielo, In Una Sera. Scende La Neve Sui Frati Bianchi, A Ristorare I Loro Corpi Stanchi, A Ricolmare I Loro Scarni Fianchi; Fiocca La Neve Sui Frati Neri, A Rallegrare I Loro Visi Seri. Frati Bianchi Come Mulinai, Frati Neri Come Carbonai, Frati Avvolti In Lunghi Sai, Frati Che Io Non Vidi Mai. Frati, Saio Sale E Pepe: Capinere In Una Siepe; Frati, Saio Pepe E Sale: Frutti E Fiori Di Natale. Voi, Nell’orto, Fior Cappuccio, Voi, Nel Mondo, Fior Corruccio. Frati, Teste Nel Cappuccio, A Pregare In Un Cantuccio; Frati, Voi, Voci Nel Chiostro, A Intonare Il Paternostro; Frati, Voi, Voci Nel Coro, Santi Assisi In Concistoro; Frati, Lunga Barba Bianca, Cui Pregare Mai Non Stanca; Frati, Folta Barba Nera, Vòlti Dove Non Fa Sera. Se Le Tocchi Con Le Mani, Tu, Le Querce, Le Risani. Se Le Stringi Con Le Dita… Tu Alle Querce Infondi Vita, Vita Austera D’eremita, Querce Dalla Lunga Vita, Querce Dalle Lunghe Dita, Querce, Rami Come Ali, Voi, Coi Monaci, Immortali; Querce Dalla Scorza Dura, Querce Grandi Da Paura. Querce, Forti E Belle Piante, Voi, Fra Tutte, Le Più Sante, Tramiti Tra Terra E Cielo, Testimoni Del Vangelo. O Buon Dio, Apparso Ad Abramo, A Mamre, Delle Querce Sotto Al Ramo, O Sommo Dio, Che Sopra Tutto Io Amo, Fa’ Che Dell’uomo, Ultima La Sorte, Non Di Dolore Sia, Di Pianto E Morte, Ma, Del Cielo, Dischiuse A Lui Le Porte, Il Tuo Bel Volto, Sfolgorante Forte, Beato Ammiri, Dei Santi Nella Corte.
Era la fine del Milleottocento, quando sucèsse quello che rammento. A tròva i vecchi sua era gita, ma, troppo tardi, da Coldepèccio argìta. Da Coldepèccio a Campetèlla arnìva, benànche, forte, la strada, su, sallìva, quanno t’atàcca ’na grande nenguetùra, che la ’nteghìsce, tutta, de paura, sui prati giónta, essa, de San Gìo, dice, fra lia: “Mo’, che strada pìo?” Ma, ’nvéce, da pia’ giù per Campetèlla, sbajjàta, segue, del distin, la stèlla, e ’tacca a scènde giù pper una forca, che drento bocca, dî Fossi, ’nte La Croce. Di qui, de Cristo, la croce lia t’abràccia, che dî stradelli jje fa perde la traccia. Così, lia mòrse, tra i trìbboli ed i stenti, e ’l pianto, forte, de tutti i parenti. ’L fosso, do’ mòrse questa donna bona, chiamato vène Fossi la Larióna, mo’, ’l fosso, do’ spirò questa matrona, tutti jje dìcheno ’L Fosso de la Larióna. ’Sta pòra donna se chiamava Lara, ’nte ’l còre ade’, ’l Signor, la tène cara.337
Amo’ v’arconto de ’na lavandara che fu portata via da la pinara. Fu sopre l’onde del Fosso Lucaràio ch’avvenne, gente, questo grosso guaio. Era ’nte ’l lùjjo, del cinquantanove, che, comme mai, venne forte a piove. Co’ la fiòla lavava la sotàna, quann’ecco se sgavìna ’na buriana; e trona e lampa e tanto l’acqua è grossa, che t’arìmpe tutti i fianchi de ’sta fossa; e giù fa corre, nero, ’n cavaróne, che ’nferocìto pare ’n gran leone. La pòra donna, rubbata da ’sto scolo, colomba par che sta spiccando ’l volo. La ròcchia l’acqua, nera, e la stragìna, mentre che piagne la fijja, poverina. «La mamma mia, la mamma mia che amo!…», dice, strillando, la fia ’taccata a ’n ramo. La pinara del Fosso Lucaràio sbatte ’sta donna, che pare ’n seme a spaio. La ’ngùrbia l’acqua, che pesa più del piombo, mentre che ’l Chiascio la porta a Colpalombo. Spojjàta la ritrova ’n pescatore, dóppo tre ggiorni passati ’nte ’l dolore. Piagne col cielo tutta la famìjja, ma più de tutti piagnerà la fijja. Questa storia, de dolore antrisa, toccò a ’na donna che se chiamava Lisa. Pierotti Lisa, maritata da ’n Bellucci, tu t’arcutìni del mondo tutti i crucci. Elisa mia, sposata a ’n Vignaròlo, dal falco de la morte presa a volo. 338 La fine hai fatto tu de quel’agnella, che, dal Pezzòlo, fenì giù La Canèlla. Sopre la schina de ’n nero cavalóne hai cavalcato partendo da Carióne. 339 Dal pòr Carióne, giù fin’a Colpalombo, de la pinara t’ha ’compagnato ’l rombo.
Arnìva alègro da ’no sposalizio, con du’ compagni cavàtose ’gni sfizio, quanno, col baroccìno tirato dal cavallo, ’l Sentino ’n piena lue prova de passàllo. De varcàllo, per gi’ su ’n Lumachèlla, a fa feni’ questa giornata bella. Ma ’l fiume è stretto e tanto è ’l cavaróne che t’aribàlta ’l calesse col patrone. Zómpeno, però, ’n tempo i altri due, e ’l cavallo se sgavìna da per lue. L’òmo s’afóga ’nte la gran pinàra, che lo porta dóppo Isola Fossara. Scalzo e ’gnudo lo trova, poverino, ’n pescatore, de Brunetti dal mulino. ’Taccato era rimasto, meno male, a la rama de ’n pioppo pe’ ’n gambale. S’afèrma ’l biròccio giù Le Canepìne, docché farà, a l’ultimo, la fine. ’Sto fatto capitò ad Aldo Capponi, pe’ ’n temporale coi lampi e con i troni. Aldo Capponi, Aldino nominato, vittima de ’n destino disgraziato. Aldo Capponi, detto de Giujjóne, portato via da ’na grande alluvione. ’L dieci novembre del quarantasei, volato, da ’sto mondo, a l’altro sei. ’No sposalizio, co’ i balli e con i sòni, feni’, per te, coi lampi e con i troni. Co’ i balli e i sòni, per te, ’sto sposalizio, fenì per doventare ’n gran suplìzio. Mentre che sott’a ’n ponte tu passavi, da uno, che te chiedeva comme stavi, tu rispondesti, de l’acqua ’nte l’andéggio: «Bene nno sto, ma che non venga peggio!». Perché tu in terra hai passato ’l peggio, ora ’nte ’l Cielo stai su ’nn alto seggio.340
’L millenovecento, era, trentotto, e d’anni lue ce n’éva appen diciotto, pe’ l’are ’l grano e l’orzo te batteva, fin’a quando la forza lo reggeva, ch’era giovine, forte e volenteroso, e del lavoro mai non fu pauroso. Ma ’l due d’aprile, pe’ L’Ìsole passando, il motor del suo trattor fumando, jje tòcca de fermàsse a còjje l’acqua, che del Catria, i piedi, e del Mutètte sciacqua. Alóra calla giù per una górga, da che ’l distino vòl che non risorga. Sopre ’na liscia mólla, poverino, scivola e mòre ’fogàto giù ’n mulino, giù ’l Mulino, ’fogàto, de Brunetti, ch’arcòlse i corpi de altri poveretti. Ade’, de te, che ’n c’hai più ’n fil de voce, c’armàne solo ’na data su ’na croce, ’na croce, sol ce resta, ed una data, e ’l pianto eterno de la famìjja amata. Tu te chiamavi Genesio Lupini, ade’ t’arpòsi fra du’ gran cuscini, che sono, celestiali, jj’Appennini. Quando nascesti, tu, era d’istate: Signore, questo fior, Vó, ridestate! Quanno moristi, tu, era d’aprile: Signore, accogli quest’anima gentile! Quanno moristi, nasceva primavera: adesso vivi dove mai fa sera! 341
Gran carbonari fùrno jj’Isolani, i Coldepecciani ed i Pascelupani, ma, fra quest’ultimi, quel sommo, fu, senza dubbio, Lupini Colombo. Mesi e mesi lue stéva, in grand’affanno, drento, de pietra, o frasche, un bòn capanno. Grandi e belle carbonare costruiva, comme mai da nisciuno jje riusciva. Adène, che volato sai, Colombo, comme ’l lampo che sempre batte ’l rómbo, verso un altro, e ben più bello, mondo, io so che ce starai sempre giocondo.342“Tu, co’ la bèschia carca, t’hai ragione, che me fa fa’ la parte del cojjóne, sinnónca, comme pecora a la rete, porta’, pure sul monte, t’évi ’l prete... ” 343 Ade’ v’arconto de du’ disgraziate, da le balze de ’sti monti vulticàte. Era l’inizio del millenovecento, quando ch’avvenne, triste, quest’evento. Una de loro le lumache cercava, e su la pruma de le sbalze stava, sul Monte Catria, co’ la zièsa Gigia, dove ogni erba c’è, ma non maligia. Quann’ecco ch’al’improvìso, da ’st’arzilla, ’n piedi sul prato móllo via je sguìlla; quann’a parti’ se sente, a l’improvìso, ’n piedi sul prato, d’acqua tutto antrìso. Quanno ch’al’improvìso, éva vent’anni, lia te subì ’l peggior de tutti i danni. Móllo era ’l prato, e ’m bel po’ ritto, còcchi, e, dóppo tutto, lia portava i zòcchi. A tempo a di’ non fa né a né amme, che, comme luta, vola fra le fiamme. Acuto ’n grido ’nte l’aria se spande: è lia che cade da la Costa Grande, è lia che vola dal Sètte de Macchia, che pare giù, in picchiata, ’na cornacchia.344 ’Na sciòlta345 parte presto d’Isolani, col passo lesto e ’l còre su le mani. L’altròva uno sott’a ’n legno tasso, ’nte la bugata de la Val del Sasso. ’Sta brava fiòla studiava da maestra: feni’ la vita ’mpiccàta a ’na ginestra.346 ’L primo che l’altrova è Checchinello, ’n òmo bòno e col corpo snello. ’L nome suo era Veneranda, finì da vive de balze ’nte ’sta banda. Veneranda Masci eri chiamata, io so per certo che te sai salvata! ’Na donna, ’n giorno, fii, de San Felice, passata, del monte, la grande cicatrice, saliva lenta lenta, stanca stanca, verso ’l Passo, còcchi, de Grotta Bianca. E già ’mboccato t’éva lo stradello, che su ’n pratello fenisce, bello bello, che del Papa vène nominato, perch’è fresco, vèrde e ben curato. Però, per gi’ ’nte ’sto loco prodigioso, tòcca varca’ ’n passo scapicollóso, de Grotta Bianca, chiamato da la gente, che de passàcce ’n vòle sappénne gnènte, ch’al posto de passàcce se cavarebbe ’n dente. La donna varca, ma jje gira la testa, e cade anciampicando su la vesta. Comme che sbatte sul fiore de lo scòjjo, essa sparisce sopre l’acqua comme l’òjjo, comme l’òjjo sofiato via da l’acqua: non ce n’armàne, qua e là, che qualche macchia. De San Felice, ’na sguadra è già discesa, lungo ’na fune a ’n grande ciocco appesa, lungo ’na corda ’nte ’l gran sprefóndo tesa. ’Mucchiata te l’altrova, ch’è ’n canestro, ’n giovinotto de nome Silvestro. ’L corpo suo, lia vede in Bocca Nera, l’anima sente, Raggiante, in una Sfera.
Un dì, Pascelupano, ’n pastorello, del Beato cadde giù da lo stradello; un pastorello, un dì, de Pascelupo, del Beato giù cadde ’nte ’l dirupo. L’ànnema sua, che ancora me rammento, fu sùbbito rapita via dal Vento, l’ànnema sua, che al corpo stava accanto, presto partita da ’sto loco santo, de la Vergine sta ora sott’al manto. La fine era del millesettecento, quando st’ànnema rubbàta fu dal Vento.347
’Nte l’anno milleottocentocinquantotto, de guàjji pieno non comme ’l quarantotto, du’ frati, cocchi mia, camandolesi, de Gubbio a Costaciàro s’èren resi, ché a San Giròllimo èreno attesi, èreno attesi per passa’ la notte e per poi ripartire a la matìna, de Loreto, proprio in vista a la marina. Su la cima giugnendo de quel Monte, che da l’eremo sta sopre, e ’m po’ de fronte, làsceno lo stradello bòno e bello, volando da le sbalze comme ucèllo. Uno mòre, l’altro forte se fa male, che ad arpiàllo vanno co’ le scale, co’ le scale vanno e co’ le corde per salvallo, sigura da la morte. Ataccàto era armàsto, benché grasso, da la rama de ’nno sterpo de tasso. Tutta la notte sta ’mpiccato al ramo, finché du’ metitor sènteno ’l chiamo, sènteno ’l chiamo du’ metitori d’orzo, de Costaciàro venuti a fa’ ’sto sforzo. ’L ventottesimo dì era d’agosto quanno la sbalza se fece comme ’l mosto: questo fu ’l carissimo pedaggio, da lor pagato per gi’ ’n pellegrinaggio. Quello morto, coi trìbboli e coi stenti, tìren fòri co’ jj’ógni e con i denti. Dóppo arportato vène, in più persone, a San Pietro de Gubbio in precisione. Loro te cadder giù comme i gran massi, che più mònnichi feriron, comme sassi. Molti frati fûr feriti e uno ce mòrse, benanche, a perdifiato, via lue corse. ’Sto frate era de l’eremo priore, ora sta ’nte la luce del Signore.348
Villante, ’n giorno, fii, ’na pecorara, co’ ’n lupo strónco t’ataccò cagnara. ’N’agnello lue dal ’l gregge éva arcapàto, e poco manca che ’n se l’êa magnato, quanno ’sta donna, ch’era sul Pezzòlo, fa comme ’l falco e pia l’agnello a volo. Co’ le mano lia te ’l tira davanti, mentre ’l lupo, co’ i denti tutti quanti, te ’l vedi a fa’ quello che fece Pietro, che, gito ’m poco avanti, arvénne ’ndietro. ’Sto pòro lupo armase comme Pietro: davanti co’ ’na mane e l’antra dietro. ’Sta donna coraggiosa arpìa l’agnello e ’nte la stalla l’armétte de L’Oppièllo. ’Sta donna a casa s’arpòrta l’agnello, e, ’n giorno brutto, fa feni’ più bello.349 “Tira vento e tramontana, da le donne jje da pena e jje l’alza la sotàna, tira vento e tramontana”. Giù La Fonda, un di’, dei Martinèlli, dove che i venti te fòn tòrge i budelli, quel brutto posto dove che, momènti, te s’àncolleno tutti quanti i venti, ’na donna, del primo Novecento, portata fu guasi via dal vento. ’Sta pòra donna, ch’era de la Villa, giovine secca e non poco arzilla, stretto sul petto portava ’n corpetto, che féa, da jj’òmini, un gran bell’effetto, ma, da la vita in giù, c’éva ’na gonna, gonfia e larga ché l’éa pòrta su’ nonna. Quann’ecco, che, grossa, ’na sventata, da la tramontana, sù, ’nnalzata, jje bócca sotto, bianca, da la sotàna, doventando gran sbòtto de buriàna, jje gonfia sùbbito quel suo gran gonnone, e, ’nn’aria, jje fa fa’ ’l volo de ’l pallone. Urla ’sta donna, che pare ’nna gaggia, benanche fusse benacorta e saggia: ùcca credendo da pati’ le cadute, mèntre la gonna jje fa paracadute. Se posa a terra più lieve de ’nna piuma, mèntre, ridendo, ’l filanzato fuma. Questo sucèsse ad una donna ’sciutta, per gnènte, proprio per gnènte affatto, brutta. Sia stato ’l vero, o pure ’nna patata, se disse che quel vento l’éa ’mprenata. Altri dìcheno, ’nvece, che fu Baldo, quel giovinotto che jje déce ’l salto.350 S’arniva, lia, col fascio su le spalle, dal monte a la volta de la valle. ’L fascio era grosso e anchi ’m bel po’ peso, ma lia sappéva quanto jj’avrìa reso. Per cènde ’l fòco c’ea d’avé la stecca, e, alóra: «Càrcheme bene, anchi si so’ secca!». Ma giù pe’ la discesa de la Foce, ’n fatto je sucède pròpio atroce. Rinfasciata su la testa, e sott’al mento, da tutto questo tristo legamento, ecco che ’l carco je pia via a travènto, che pare fòjja portata via dal vento. S’avùltica, e, ’nfine, lia s’altrova, comme ’n’ucello caduto da la cova. Tutti jj’ossi, o guasi, jje s’èn rotti, ’nvece de le parole, dice i mótti, le bastìgne, ’nvece de le pie parole, jje scàppen de la bocca verso ’l sole. Da la Villa vann’arcòjje i pezzi, de ’sta donna, ’nsieme co’ jj’atrézzi. A La Villa, l’arpòrteno, poretta, col culo a sede sopre ’na carretta, pe’ risconta’ ’sta pena maledetta: per mesi e mesi jje tocca sta ’nte ’l letto, per fa’ artacca’, dî ossi, ’gni pezzetto. Piagne lia tra trìbboli e stènti e mille, mille, mille patimènti. Arguarìta, s’arfa’ la bocca amara: pel fascio arrèccola, comme ’na somara, e, dóppo che l’hanno pure ’ngravidata, ’n c’è modo da vedélla riposata; co’ la trippa gi’ je tocca, a pendolóne, col fascio grosso legato a traginóne.
I.: Le donne di un tempo filavano effettivamente la lana?
D.: Si ’l mistiere de le donne saper vui, t’ho da di’ che propio adène tu ’l mentùi.351 Filaveno col fuso e co’ la rócca352 e dicéveno da una, pòra cocca: “Fila, Loreta!353 ’N posso fila’, ché me dòle la déta!”.354
I.: Fra i tanti contadini e pastori che ha lungamente frequentato e profondamente conosciuto ed amato, quali, in particolare, hanno lasciato un’impronta indelebile nella sua mente?
D.: C’è stato Alfrèdo, anzi ce n’ènno due,355 po’ c’è Fiorenzo,356 ch’ho amato pure lue. A tutti quanti jjo scritto ’nna poesia: l’ànnima loro è ormai l’ànnima mia.357
Chillo
Dolce e ridente, in un mattin di maggio, rivedo ancora il tuo volto di saggio e, insieme con la luce che si spande, ecco apparire l’anima tua grande.
Mi fai sedere al tavolo ospitale, dove ogni cosa appare tale e quale, tale e quale la lasciasti allora che un male oscuro ti strinse la gola.
Ma quella voce, che ascoltai bambino, mi parla ancora, mentre tu versi il vino. E ritorniamo a dir della Natura e dei segreti d’ogni sua creatura.
Di nuovo iol’allievo col Maestro che mi fa uscir dal mio cammin maldestro, che mi parla di esseri e di cose, di frutti, fiori, di canine rose.
Dell’uomo, i suoi tormenti e la sua gioia... ... donne antiche che portan la corójja... ... d’ore liete trascorse nel tuo maggio, sotto l’ombra d’un albero selvaggio.
E ci piace riandar con la memoria a vite senza voce nella storia. Dei tuoi luoghi d’infanzia apprendo i nomi, degli alberi i segreti e dei lor pomi.
Mi culla il suon della tua voce vera e non mi accorgo che si è fatta sera. Triste dal ramo quel solitario chiù par che mi dica: “Non lo vedrai mai più”.
Ci salutiam sul ciglio della porta e il tuo sorriso al mio cammino è scorta, da casa mi saluti con la mano, finché ti vedo scomparir, lontano.
Addio, grande amico della vita, te ne sei andato, ma non è finita: spero ti accolga nuova primavera in quel paese in cui non si fa sera.
Ti voglio ancora ricordar com’eri quando ci siamo salutati ieri. Eri la terra a lavorar provetto, abile falegname, anzi perfetto.
E del tuo nome resterà, lo credo, eterna la memoria, o caro Alfrèdo, perché mai sulla terra nulla muore di una vita vissuta con il cuore.
E voglio ancora richiamarti come... ... tutti lo conoscevano il tuo nome. Un nome sol risuona come squillo, quel nome tanto amato è solo... Chillo.
Alfrèdo
Quando il passato mio più bello vedo,è solo te che ho in mente, o caro Alfrèdo. A Cantalupo, vivesti da bambino, col grande cacciatore, “’l zi’ Angelino”. Andato a lavorare su ’L Poggétto… uomo ti rivelasti, tu, perfetto. Poi su La Fossa andasti ad abitare e molti anni ci dovesti stare. Ad una fonte a prender l’acqua andavi… a quella fonte bisogna che mi lavi. Poi alla Villa ti sei infine trasferito, vicino alla mia casa stabilito. E il tuo lavoro con coraggio hai mantenuto… per tutto il tempo che io ti ho conosciuto. Con la tua “Checca” hai fatto otto figli, tutti diritti e belli come gigli. Da te, mio grande vecchio, io ho sempre “preso specchio”. D’ogni pianta sapiente potatore; della montagna gran conoscitore; di tutte l’erbe provetto falciatore; d’ogni terra forte coltivatore. Del Monte e dei suoi boschi, tu tutti quanti conoscevi i posti, e chi me li insegnò proprio tu fosti. Dei “salci” miei, i rami hai tu potato, come due mani che a lungo hanno pregato. “Sun” Sèrra, col “pòro Gigione”, una capanna un giorno avevi fatto, che solo il tempo e il vento han poi disfatto. Come potevo, ti salivo a trovare: nella capanna, tu mi facevi entrare e come un re mi ci facevi stare. T’addormentavi su la “rapazzòla”, e, intanto, come il vento, il tempo vola. Ed ecco, il male, le gambe ti ha fiaccate, ma nel mio cuore non si son mai stancate. Per il Cucco ti vedo ancora camminare, da giovanotto, col tuo spedito andare. E mi par proprio, no, ti vedo stamattina, col “pòr Ceccóne” in quella “buga, co’ la strina”, dove caduto mi dicevi fósse, perché la neve “tuppava” anche le fòsse. Al Convento dei frati tu sei stato per radunar le capre, giù al Beato. Nella lor chiesa c’era un ciel di stelle, d’azzurro pitturate, chiare e belle. Tu mi hai insegnato più d’ogni professore: ed è perciò che ti terrò sempre nel cuore. “Giù Le Guardàte o giù ppe’ Le Pasture”, tu avevi sempre delle pecore le cure. Con te, laggiù, io ho a lungo chiacchierato, e, da ragazzo, uom son diventato. Se ti guardavo, io, vedevo il sole, che scaturiva dal centro del tuo cuore. Da te potati, i “salci” mi sembravano… due verdi mani che verso Dio pregavano. Se un giorno tu con me più non sarai, io, te lo giuro, non ti scorderò mai. E del tuo nome resterà, lo credo, eterna la memoria, o caro Alfrèdo. Ma ben più forte sarà il mio sentimento, di gratitudine per ogni insegnamento. Sempre sincero e limpido sei stato, tu, della vita, il più bel fiore sbocciato, come sincero e limpido è il tuo vino, così sei tu, maestro… “Martelìno”.
Fiorenzo
Tempo era che il Cucco si veste di neve e la sua vetta brilla, dolce, di brina che ride e che sfavilla… …schiacciato sei restato fra le polverose pagine del libro della vita, d’improvviso, su te il libro si è chiuso, d’improvviso, ti ha carpito il fato, d’improvviso, strappato al nostro affetto di figli e di fratelli, quando ancora dispiegherai i colorati petali al sorridente astro? quando ancora fremerai alle vivaci brezze della stagion più bella? quanto ancora giacerai, rigido e freddo, nella tua pallida tomba di carta? Nel fulgore suo infinito, presto, il sole ti ha rapito. Ma l’anima tua grande, ascesa ad alte sfere, nel mio ricordo è bella. Anima salva, del mio giorno alba; anima cara, del mio volo ala. Aquila librata, vasta, di luce sopra una vallata, di rondini sfera, promessa di primavera, calma e dolce come sera, che l’anima mia spera, pulviscolo di stelle, rugiada sulla pelle. Rosa di neve, dischiuditi al calore del nostro eterno e sempre nuovo amore! dispiega ancora i colorati petali al sorridente astro! fremi di nuovo, anima bella, alle vivaci brezze della stagion novella! Mai più tu giacerai, stanne sicuro, nella tua pallida tomba di carta. Quando al passato mio più bello penso, è solo te che ho in mente, o buon Fiorenzo: della montagna gran conoscitore d’ogni animale provetto cacciatore. Del Monte intero conoscevi i posti, e chi me li insegnò, proprio tu fosti. D’ascoltarti non mi son mai stancato, e, da te, moltissimo ho imparato. Dalla tua Agnese avesti quattro figli: tutti belli ed onesti come gigli; ad Agnese dedicasti una poesia, teneri versi, di grande nostalgia. D’estate fosse, oppure d’inverno, di tutti e ognuno amico eri fraterno. Con sguardo aperto, e con sincero viso, a tutti regalavi il tuo sorriso. A Pascelupo eri la vera gloria, di Pascelupo sei entrato nella storia. Per te, ora, tutto ha un senso, maestro mio,…Fiorenzo.
I.: Lei che ama così profondamente le montagne, prova, per caso, altrettanta attrazione anche per i corsi d’acqua che scaturiscono da esse?
D.: Sopre358 i fiumi ci ho scritto ’na poesia, sun359 tutti quelli de quest’Umbria mia:
«Mio padre è il Chiascio, mia madre il Tevere: per tutta la vita li ho osservati unirsi con fatica e mischiare le loro acque, chiare e scure, ed uscire estenuati dalla lotta, come guerrieri che cadano entrambi stremati, senza vinto né vincitore».
Fiumi ’L sangue mio è comme ’na fiumana che ’n tutto quanto ’l corpo, greve, me se sdopàna:360 numerosi affluenti, dai nomi ribollenti, vergati certo ’nte l’Età de l’Oro, che me fanno pensa’, de le fluviali ninfe, al concistoro. Quel fiume che, lagiù, se sloga piano da li mitichi tempi del dio Giano, comme ’na grossa biscia ’vuticchiàta,363 a sdopanàsse364 giù pe’ la vallata. Sentite che poesia! De zompi e de cascate ch’armonia! ’L Teverone, che ’n mènte me fa venì ’na mitica alluvione; ’l Velino, che nasce dal petroso còre de l’Appennino; e la Saónda, che, de Gubbio, drent’a la valle afónda;365 ’l Nera, che m’arcorda ’na riccioluta chimera; e l’esile Clitunno, da le piogge abottàto366 de l’autunno; stracolmo, comme ’nn’ òtre, dà fòri367, là, ’l Menòtre; e ’l Pùjja,368 che càlla369 giù giù giù da li Martani,… …nomi arcaichi, strani… e ’l Topino, che tutti a arcordàmmeli370 sto fino! ’L Pàjja,371 che, riflesso dal sole, la vista m’abbarbàjja;372 ’l Vetórno, ch’arsenti’ ’sto nome, alle ràdiche mia, felice, artórno;373 ’l Téscio, che la fonda sua valle tesse al dritto e al rovescio;374 e, infine, ’l Tèbbro,375 ch’ebbro de luce se fa ’na pennichella sott’a ’na vèrde ombrella,376 ninnato377 dal canto de ’na lavandara, che sciacqua le mutande e le lenzola drent’ai gorghi de ’na gran fiumara. Do’ ’sto fiume scorre presso Ameria capitò ’na cosa ’m bel po’ seria: qui ’l martirio ce fece San Secondo, Romano milite, giovine, giocondo; p’ave’ del mondo i mali ’bracciato dai compagni ’nte l’aqua fu ’fogato.378 L’etrusco e l’umbro sangue s’aridesta,379 d’iridescenti schiume ’nte ’na festa! Fiumi de casa mia, mamma che nostalgia! Vorrei trovàmme là, ’nte ’l solióne,380 drent’a le vèrdi canne de l’Aróne, a risciacqua’ de panni ’na gran secchia, cullato dal ronzare de ’na pécchia.381 E ’l Chiascio, do’ Rufino mòrse da santo fino.382 Tòttila, re, ce venne setoràto,383 Sant’Ercolano, dóppo ave’ ’mazzato.384 Dio, non risisto385 più, sì ché le ralche mia386 afóndeno387 lassù, ’nte la valle del Chiascio solatìa, vèrdi lavacri de la terra mia!
I.: Come ha vissuto questo ultimo, distruttivo terremoto, che tanto duramente ha colpito l’Umbria con le Marche? È vero, come si racconta, che la grotta di Monte Cucco farebbe “sfogare” al suo interno tutte le onde sismiche che l’attraversano?
D.: Da me ’l tremòto non me fa trema’, e ’na poesia ci ho volsùto388 fa’:
Balenèllo
«Quanno passa Balenèllo389 tutti còjje sul più bello: chi a gavallo de la mójje, chi ’nte ’l letto co’ le dòjje, chi ’nte ’l sonno suo beato, chi a ’na troia ’ngavinato.390 Tutti chiappa questa lenza391 e fa comme la sbalènza:392 ’mpo’ te sgrulla e mpo te rulla, parghi ’n fìjjo su la culla, po’ te sdrìngola393 e te ninna, 394 comme ’n fiétto la sua zinna,395 comme ’n fiòlo la sua nénna,396 comme ucello su l’antenna. Sgrullarello è traditore: Lue te passa a tutte l’ore; non t’avisa, non t’avèrte, pare ’n fio che se dovèrte.397 Po’, ’nte ’l mentre che t’acòrghi,398 è bell’ora che tu mòrghi.399 Ma, quanno passa de notte, fa le case tutte rotte: quale crepa, quale pacca, poche son che non l’antacca. Ora vèrtica,400 ora arbalta, or baléna401 ed ora salta. ’Na passata e ’n gran trimóre402 che te gela pure ’l còre. Pe’ le scale, a scapicollo, te rompi l’osso del collo; de la casa poi scappato,403 rischi d’essere acoppato: una polvere e ’n gran chiòppo:404 su la testa eccote ’n coppo. Si qualcuno po’ tentenna ’n mezzo armàne a ’na gran zénna.405 E, vedendo quel c’ ha fatto, ecco - dice- : “So’ del gatto”.406 Do’ ’n ce dà407 è perché ci ha dato, tutto ’l mondo ha sdringolàto. Quanno ariva coi suoi mali l’ sanno solo jj’ animali: ’baia ’l cane, l’oca strilla zompa ’l pescio co’ l’anguilla. De le volte, comme ’l lupo, lancia pure ’nn urlo cupo.408 Tante volte manda ’n sòno, peggio più del peggio trono.409 Si de trono ci ha la voce quel che porta è assai più atroce: mazza, ciacca, spacca, pista, fa de danni lunga lista. Ma nialtri c’em La Buga410 ch’ogni terremoto sfuga: più lue vène con gran foga più drent’a la buga sfoga. E’ del Cucco la gran panza ’na cassa de risonanza. Dóppo ch’è passato lue ’n mugghia411 più nemmanco ’l bue. Si la terra grulla bene, je s’arsènteno le vene412 e ’na fonte, ch’era ’sciùtta, un gran getto d’acqua butta. Quanno credi ch’è passato lue t’ha già birondolato:413 ché t’ artorna sempre forte, puntual comme la morte; da nisciuno guarda ’n faccia, lue ch’è ’na brutta bestiaccia. Si te dondola ben bene, te le fa trema’, le vene. Po’’ nte ’l mentre che te grulla lue te porta ’n cavanciulla414 comme ’n frego a ’na fanciulla comme ’l vento a ’na betulla… ma già tutto te sgaùlla.415 Basta solo ’na passata e la casa è spasuràta.416 Po’, si armànghi a spendolùce,417 comme ’n matto te fa ardùce;418 e si resti spesolàto,419 parghi ’n pòro disgraziato. Cólco420 armàsto, o in corpacione,421 parghi pure ’n gran cojjóne. Anchi su le cèrque còjje422 e ce fa veni’ le dòjje. Io pio ’l mondo comme vène: si me grulla, me sta bene, non me lagno, non me dolgo e si vène Balenèllo, anche si me vol fa’ bello,423 io da lue non me ribello pur si bócco424 ’nte ’l lavello.425 Non me fa nisciun dispetto, pure si stiro ’l cianchétto.426 Quel ch’ha da ’ni’ nisciuno ’l sa: alóra, comme se pòl fa’? Solo ’n soffio è questa vita… ’na sguardata427 ed è sparita; …’na finestra è questa vita: ’n’afacciata, ed è finita!…». Salvo, poi, ad arcomincia’,428 cocchi mia, ’nte l’Aldilà.
D.: Ma adesso che me ’l dite, io m’arcordo, de ’n pòro pecoraro armàsto morto. L’ànnema429 sua ancora me compare e, al’ improviso, atacca a chiacchierare: “Manno ’mazzato sul Ponte Leone, pe’ ’na penna d’ucello grifone”.
I.: Non avrebbe, per caso, da narrarmi ancora qualche altra storia popolare o poesia su antichi ed efferati fatti di sangue?
D.: D’arcontàvve430 ci ho solo ’sta poesia, che ’mparàta431 me l’ha la matre432 mia:
La triste storia di ser Vanni
«Fu sopra il Monte de Santa Maria ch’avvenne, gente, questa storia ria.433 Baldo de messer Armanno fu l’autore d’un inganno, ma di morte, la vivanda, gliela diêr434 quei de Ghirlanda.435 Di buon mattin da Costaciàr436 partîro,437 a ser Vanni 438per infliggere un martìro.439 Di cacciar, fingendo, allo sparviero440 invitar si fêro441 al suo maniero, e, aspettando di fare colazione, il castello tolsero al padrone, la vita, poi, strappando al castellano, financo il Monte442 gli tolsero di mano. E, in mezzo a un balenìo di tuoni e lampi, ingordi, sangue, tracannâro i campi».443
De Costaciàro, ’nte ’n palazzo antico, la mójje c’aloggiò de Federico, che per Urbino fu ’l più grande Duca, ché, ’ncóra ògge, ce beve e ce mandùca. Batista se nomava, ’Tista, Sforza, ’na Dama ’nteligènte e pien de forza. Quanno passava, Lia, per Costaciàro, per dimostrà quanto ’l tenéa caro, se riposava ’nte ’sto palazzo antico, ch’arcostruì l’éa fatto su’ marito. Tanto era benvolsùta ’sta Signora, da molti detta “d’Urbin La Monsignora”, ma pî Costaciaròli Bonsignora, che La benedicéveno ad ognora. Da ’na finestra Éssa s’afacciàva e ’l popol tutto, Lia, te salutava. L’ànnima Sua continua ad albergare drent’a le stanze che vòlse abitare. Drent’al “Palazzo Ducal” de Costaciàro, certe sere ancór se vede ’n chiaro: è, bòn, lo spirto che schiara, de Quista, le sale docché soggiornò Batista. Si m’hai capito, mo’, sai che, ad ogni ora, qui vola l’ànnima de la Bonsignora.444 De Costaciàro, Ducale, ’nte ’l Palazzo, d’Urbino, i Duchi godéveno ’l sollàzzo. De Costaciàro, Ducale, ’nte ’l Palagio, d’Urbino, i Duchi, stéveno a bell’agio.
C’era la guerra tra Perugia e Gubbio445 e tutti i Sigillani, senza dubbio, s’èren schierati pe’ ’l Grifo rampante, mentre che Costaciàro, pe’ le stòle, de sant’Ubaldo guerreggiare vòle; dei cinque monti, ’l lato più ’ndifeso, tutto lue fa perché non venga preso, dei cinque colli ’sto canto vòl difende, facendo i Sigillani tutti arrènde. Alóra d’anventa’ pensa ’nn ordégno: ’n grande cacafòco, ma de legno. Giù ppe’ la fonda del Fosso del Cupo, se va a tajja’, matriàle, ’n gran sambugo, col quale fa’ drent’a Segillo ’n bugo. Se tàjja ’sto modello, e, ’n più persone, lo se trasforma in supercannone. Dato ch’al posto de l’ànnima ci ha ’n bugio, lo se tramuta, orrendo, in archibugio. Se mette drento, de polvere, ’na balla, de pietra de la Fossa ’na gran palla. Se piazza ’l fusto da cima ’l Trióne, in ottima, dominante posizione, puntato de Segillo in direzione. Col fòco del ’l lucìgno, po’, s’apìccia, la polvere, per mezzo de la miccia. Tutti se scànseno pe’ ’n senti’ la bbòtta, che farà i Sigillani fuggi’ in rotta. Tanto è grossa la bbòtta che se sente… trema’ ’l paese con tutta la gente. Chi ’fiaràto chi morto ce s’altrova, ma, fiero, a parla’ uno te prova: «Cocchi mia, c’è gita ’m bel po’ bòna: si ’sto sconquasso ha fatto qui l’ordégno, de Segillo ’n ce sarà più manco ’l segno, si ’sto ravastìo ha fatto dettoquì, certo, giù ’n Segillo, avrà fatto a puli’!».446 Jj’esploratori, spediti a conta’ i danni, del viaggio poco pàteno jj’affanni, ché su la prima casa de Segillo, sènteno nn alto, abominévol strillo, «cinque, sei», se sente a leva’ nn ucco, che fa trema’ le balze al Monte Cucco. «Si cinque o sei èn già morti toquìne, drento Segillo avrà fatt’a pulìne!… Alora a Costaciàr presto tornamo, e, bòna, questa nova presto damo». ’Visati de sta bonissima novella, Costaciàro per poco nno sbarèlla, ma presto, per Sodoma e Gomorra, s’arsa’ che Segillo gioca morra, e, nn avèndoce avuto manco ’n morto, Segillo de gnènte s’è nicòrto. Per alarga’ la signoria dei duchi, Costaciàro ricorse da i sambuchi. 447 Era ’l millecinquecetottantadue e ’sto fatto ’l ventisei de marzo fue, quanno l’Università de Costaciàro, tutta ’nguastìta, e ’ndiàntenìta ’n mondo, scrive dal Duca Checco Maria Secondo: «Del Vescovo, ’l nepote de Nocera, d’Accoromboni drent’a l’Isola era, co’ ’na banda d’amichi e de briganti, cacciando comme matti e lestofanti. ’Nte ’sta riserva, dóppo ave’ sparato, ’l Sindico e i gualdari ha modestato, l’ha modestati, se sa, senza alcun dubbio, ’l Locotenente de la città de Gubbio. ’L Locotenente, con grande disappunto, per “malleficio” li punisce “presunto”. De Gubbio, ppo’, ’nte ’n casa Accoromboni, pare che piove coi lampi e con i tròni: «Da ’sto ’mpestato nepote d’Eccellenza, paga’ farìmo, cara, l’invadenza, da lue, ’nsieme con tutti quanti èn stati, noialtri cambiarìmo i connotati!».448
I.: Quali altri episodi cruenti può narrarmi, dei quali si resero protagonisti i Costacciaroli?
D.: Era l’inizio del milleseicento, quando ch’avénne ’sto scontro violento. Francesco Maria, Duca Secondo,449 credèndose patrón de tutto ’l mondo, vòlse accampa’ ’n diritto su ’sto monte, che solo ci ebbe ’n suo antenato conte.450 Alóra manda ’n bon gruppo de guardiani, co’ l’archibugio tutti su le mani, cercando da ’mpedi’, che òmo avaro, che ’l monte fusse più de Costaciàro. Ma i Costaciaròli de ’na volta, ’nte du’ menuti scendeno ’n rivolta; ecco, li vedo, s’arduneno, pian piano, belli ’nguastiti e coi bastoni in mano. “Si én da mori’, ben sarìmo morti, vendicando, col sangue, tanti torti”. Spiccando ’l volo, èsteli sul Cucco, docché se sente, unico, ’n grand’ucco. Tutti i guardiani bastoneno, ben bene, uno ad uno moràndojje le vene.’Sti òmini forti, i guardian del Duca, métteno ’n rotta, e, presto, ’n fretta e ’n fuga. ’Pena ’visato, Checco de la Rovere, eccolo a Costaciàr sùbbito piovere. Vòle fa’ lu’ ’n processo dove i soli, gastigati saròn Costaciaròli. Ma, più Costaciaròli, d’api comme ’n favo, vóleno dritti verso Urbano Ottavo. ’L Papa capisce chi è l’usurpatore e dî Costaciaròli è ’l salvatore: “Ènno ’sti mostri che v’honno levato, quello ch’è vostro e ve séte meritato. Bene ascoltate, e armarréte de stucco: sempre vostro sarà ’sto Monte Cucco, e, chi ’n ce crede, la testa io jje stucco. “Ma, commme che la prescia ’n vòl la fuga”, drent’a ’na buga te cade pure ’l duca, col suo cavallo, e col cappel de feltro, l’ultimo a vive de quei de Montefeltro.451 Per fa’ spari’ d’Urbino i gran patróni, Costaciàro ricorse da i bastoni.452
I.: Vi è una festa popolare, tradizione o rituale ora scomparsi, che ricorda con particolare nostalgia?
D.: Mentre d’autunno ogni pianta se spòjja,“vòjja o’n vòjja, maggio vòl la fòjja”.453 Villanti, i fréghi, ’l séddici de maggio, a Ubaldo Santo féveno ’n omaggio, de la Villa, i freghétti, per di’ ’l vero, la festa, ogn’anno, féveno del Céro, ch’era uno, piccolo e de legno, ma de Gubbio simil nel disegno. Era ’n cerino fatto ’m bel po’ bello, ché da piedi c’éva ’n portarèllo. Le forme de ’sto Cero èreno strambe, ché, sotto, ’l portarèllo, ci éa le gambe. Quattro paletti, comme ’na capanna, formaveno ’l telaro da ’na balla, tutta ’nvernigiata, verde e gialla, bella ’m bel po’ era pure ’sta balla, verde e gialla tutta colorata, e, sotto, de calcìna ’mbujjaccàta. Da cima ’l Céro stéva, ’m bel po’ saldo, ’n pupazzo arsomijjànte a Sant’Ubaldo. Du’ freghi avrìsci, ppo’, poduto véde, col Cér cantando, “Il lume de la Fede”, de gioventù, alegra ’na riunione, su ’n Rànchena, che giva ’n precisione, de gioventù, alègra, n’ardunata, con cesto d’òvi contenta fa’ giornata. Co’ ’sti òvi, poi, ce féveno ’na cena, de la miseria scordandose ogni pena.454 De San Giovanne, drento de ’nna tazza, i vecchi nostri mettéveno la guàzza, ch’era, de fiori, ’na specie de tisana, fòri lasciati tutta la notte sana, ch’era de fiori, messi a móllo, fatta, e, la matìna, sùbbito, ritràtta. Acqua pareva tratta da le rose, con che podévi fàcce tante cose. Acqua pareva, piovuta giù dal cielo, ’nuta a protègge, come dal sole, un velo. Acqua pareva, davéro, tutta santa, ch’ogni vita arguarìva tutta quanta. Si, ppo’, qualcuno la faccia ce lavava, parécchio mèjjo, parécchio mèjjo stava. ’L prefumo suo, sempre, jje conferìva, anchi si ’nvèlle, anchi si ’nvèlle ’n giva. L’acqua pareva con che San Giovanni levò da l’òmo jj’originali danni, l’acqua pareva con che, ’nte ’L Giordano, batisò Cristo de sua propia mano.455 L’acqua pareva con che San Giovanni ’nte l’acqua, Cristo, ficcò con tutti i panni.456
I.: Vi è, per caso, in uno dei tanti paesi di questa negletta ed abbandonata regione appenninica qualche divinità cristiana che goda di una speciale venerazione?
D.: Tanto a la Schiggia se venera Maria, che de Madonne ce n’è ’nna ravastìa: quella de le Grazie a Valsarnìa, Maria, la ’Sunta, c’è su ’n Campetèlla, quella de ’l Càrmine sta da piedi al Fiume, ’n’antra Santa Maria stéva sul Monte, a Valdorbìa c’è la Loretana, n’antra ’Sunta se venera la ’n Sìtria, una Addolorata sul Calvario, del Trebbio ’n’antra drento de La Schiggia, la settembrina è patrona scheggina, quella de la Neve a Belvedere, del Bòn Consìjjo a Ponte Calcara.457
I.: Ritiene forse possibile che qualche suo simile possa essere sopravvissuto, e, miracolosamente scampato alle persecuzioni degli uomini, viva ora, come lei, in queste desolate solitudini?
D.: “Tutto è possibile, forché l’òmo gravido!…” Quanno che mòre questo corpo mio, ’l giorno e l’ora li sa solo Dio. Sott’a ’sta terra, de cento sapori,458 ’n essere dormirà senza delóri, voi che passate, armarréte de stucco: ’l Diàntene sarà de Monte Cucco.459 “Qui giace, riposando, ’l gran villano,460 Vital d’Angelo detto de Chignano”. Vital d’Angelo, de Michele fiòlo, che, quanno mòrse, ci ebbe ’n pensière solo: da rigalare case, terre e greggia da tutto quanto ’l popolo de Scheggia. ’L volere suo sta drent’a ’n testamento, Schigi notaro rogò quel documento. ’Na terza parte déce da lo ’spedale, perché la gente più ’n patisse ’l male, quel’altre due dal sindico le dette: l’opere sue so’ state bedenette.461 Sto’òmo, ’n vita, fu solo ’n fatóre, mòrse, però, da gran benefatóre.462
I.: Per quale ragione, nonostante tutto il bene che voi avete fatto agli uomini, questi ultimi non si sono mostrati minimamente riconoscenti nei vostri confronti, ma, anzi, vi hanno così ingiustamente perseguitati?
D.: “Comme fai, comme non fai, sempre drent’a ’n fosso sai!”. “Chi d’abeto, e chi de noce, ciascheduno c’ha ’nna croce!”.463 “De quel che ci hai, gnènte non t’amànca”,464 ma, dàjje dàjje,465 perfino l’oro stanca. “Si, quann’è tempo, l’òmo non moriva, de campa’ più senz’altro ’gne ne giva”.466 “Comme fai sempre ’n pezzo te n’amànca”467 e tanti culi armànghen468 senza panca: “C’era ’na volta uno che c’éva ’l banco469 e ’n c’éva ’l culo, C’era ’na volta ’n antro che c’éva ’l culo e ’n c’éva ’l banco”.470 “Puletti Salvatore, hai vòjja a lavora’, ché tanto l’acqua, furiosamente, pe’ ’l vecchio fosso va!, Puletti Salvatore, hai vòjja a lavora’, ché tanto l’acqua, dove tu vòi, non te ce vòle anda’!”.471
I.: Continuerà ancora a vivere accordato al lento ritmo delle stagioni o si farà, perfino lei, prendere da quella frenesia che stritola gli uomini in un folle ingranaggio, che loro stessi contribuiscono continuamente a lubrificare?
D.: “’L bòvo lento ’n perde ’l passo”.472 Perché vo’, ’n giorno, toquìne artornate, ’sta storia, bene bene, mo’, ’scoltate!
La storia de ’n fiòlo scervelàto
’N’òmo c’éva du’ fii. Quello giovine, ’n giorno, jj’ha fatto: «O, ba’, dàteme, ’m po’, la ròbba che tòcca da me. Alóra, ’l patre, spartì la ròbba sua tra i du’ fii. Dóppo ’m pezzetto, arcutinàto quel che c’éva, ’l fio più giovine gède via de casa. ’Nte ’l paese, docché s’era fermato per aloggia’, campava commo ’n signore, e, a la fen fine, da lu’, gn’armàse più manco ’n quadrino ’nte le sacòcce. E, dóppo che ’n c’èva più ’n cavolo, arivò anchi ’na gran brùscia, e, lu’, alóra, t’ataccò a patì anchi la fame. Alóra je toccò gi’ per garzone da uno de quelli che stéveno tolà. Amo’, per tira’ avanti, gède a para’ i maiali a ghianda, del più ricco del paese, e c’éva tanta fame ch’averìa magnato anchi la ghiande, ma ’gne la déva nisciuno; ’ntanto arpensava da i servi del patre, che podéveno magna’ e beve, mentre che lue crepava de fame. Alóra, pensò d’argìsse a casa e de di’ dal patre: «O, ba’, so’ stato tristo con vo’ e col Patreterno, e ’n c’ho più còre da chiamàmme fio vostro, ma arpiàteme l’istesso drent’a casa vostra, magàra comme ’n garzone». E, ’nte ’n mezz’a ’sti pentimènti, ambiffò la strada de casa. ’L patre, comme che ’l vidde artorna’ de lógne, jje gède ’ncóntra e jje fece ’na gran scacciavillata, l’abbracciò e jje diede bacio. E, alóra, ’sto pòr fio, j’arispose: «O, ba’, so’ stato catìo con vo’ e col Patreterno, e ’n c’ho più còre da chiamàmme fio vostro, ma arpiàteme uguale ’nte ’n casa, magàra per garzone vostro». Alóra, ’l patre, ha ditto da i servi sua: «Portàtejje la muta bòna e mettétejjela, mittétejje anchi l’anello dal déto e le scarpe nòve da i pièdi, e, ppo’, piàte ’n vitello bell’e grosso, e scannàtelo, e magnamo e famo festa, perché ’sto fio mio era morto, e, ade’, s’è rinvistato, l’éo fatto perso, e,’nvece, l’ho altrovato. Alóra, t’ataccòrno a fa’ gran festa da ’sto frégo, che, prima, s’era ’nciornachìto, ma, dóppo, t’éva armésso giudizio. Però, ’l fio più grosso, ch’era gito là ppi’ campi a fatiga’, mentre che s’arnìva, sente a sona’ e a balla’. Alóra, dóppo, ch’éva dato ’n chiamo da ’n servo, jje disse: «Que sucède tutto ’sto rimóre? È arnuto fratèlleto, e bàbbeto jja fatto ’mazza’ ’l vitello più grasso, perché ’sto fiòlo è artornato salvo e fischiardo». Alóra, ’l fio più grosso s’è tutto ’nguastìto e nn’éva manco più vòjja da bocca’ ’nte ’n casa, e, dal patre, che, ’nte ’n quel mèntre, era scappato fòri per fallo entra’, jja ’taccato a di’: «O, ba’ è da quel di’ che sto con vo’ e v’ho dato sempre retta, e, da vo’, ci ho preso sempre specchio, e, vo’, per contracàmbio, ’n m’éte dato mai manco ’n capretto téndero per magnàmmelo co’ jj’amichi mia, e, amo’, che v’è artornato ’sto scervelàto de mi’ fratello, che ve s’ha magnato tutto co’ le belinciàne, jje ce ’mazzate sopre anchi la bestia più bella». E ’l patre, dal fio: «Fiòlo mio, te, sai armasto sempre con me, e tutto quel che c’ho è ròbba tua, ma, adène, tòcca sta’ alègri e èsse contenti, perché è arnuto fratèlleto, che l’éo fatto morto, e, ppo’, s’è rinvivito, che l’éo fatto perso, e, ppo’, m’è arcapitato.473
I.: Cosa pensa delle sindromi del lotto, delle lotterie e della lottomatica, che pare abbiano recentememente contagiato anche gli uomini più saggi ed avveduti?
D.: “Chi gioca al lotto, e spera de vénci, scappa dî stracci ed entra ’nti cénci!”. Da già, la gente, era mattemàtica, figùrte, ade’, che fa la lottomatica. Per manda’ giù la vita senza arlòtto, mai non toccarìa da dàsse al lotto. La vita, su ’sta terra, è già ’na lotta, e c’è chi armàne secco su la botta, ma, ppo’, quello che vòle gioca’ al lotto, perde i guadàmbi sua tutti de ’n bòtto; tanto se gonfia, per gratta’ ’l rosùme, finché ’n te crepa, ciambòtto pien de fume.474
L’uomo e il Diàntene si accomiatano. Lo Spirito della Montagna, tuttavia, prima di lasciarlo definitivamente, gli dà utili consigli su come impiegare le informazioni raccolte, lo porta in cima al Monte e gli svela alcuni segreti della Natura, scomparendo, poi, per sempre, nel mistero da cui era emerso
I.: Signor Diàntene sta arrivando un grosso temporale, di cui già sento cadere le prime gocce: non correrò forse dei rischi a tornarmene a casa attraverso l’acquitrino del Passo de la Porràia,475 come quello di sprofondare nella terra fangosa o di essere colpito da un fulmine? Come posso evitare tali rischi?
D.: “Sant’Anna, Bàrbera e ’Lisabetta, 476 salvàtece da fùlmeni e saetta!”. “Sant’Ubaldo, si al’improvìso slàmpena, fa’ che piove senza tròni e gràndena, che senza troni piova e senza lampi e che l’òmo da brutta morte scampi!”.477 Del caldaro, ’l pesante catenaccio, butta sull’ara, comme si fosse straccio!478 La terra anchi dal fulmine l’arègge: vòi che ’n te tène dei cristiani ’l gregge? Fìcchete sùbbito sott’a ’nno spino grosso, ché ’l fulmine ’n te pòle cade adòsso!479 Tre ssegni de la croce su la fronte, quanno ogni lampo te vedderai di fronte.480 Po’, questa lampa, tène su le mano: si te se spigne, vól di’ che sai lontano, si te se smòrcia con ciàmo de lute, le pene tua te l’averai volute; sinnò, col lume fiacco de le stèlle, tu, cocco mio, non pòssi gìcce ’nvèlle. ’Sta lampa vecchia se chiama cendilèna, t’aiutarà a camina’ con lèna, ’sta lampa racchia fa lume col carburo: è ’n lume chiaro, che fa spari’ lo scuro. Ce gìvon, setoràti, i minatori, i spiòlichi, i ladri de tesori…481 Si la notte te còjje, tutt’a ’n tratto, da l’Ostaria fèrmete de ’l Gatto, ch’a Costaciàro sta sopre ’L Trióne, e ch’a ’loggiato ’n mucchio de persone; prima che entri, vedderai tu ’n gatto, de pietra lavorata tutto fatto, sotto de lue, ch’apòggia sopre ’n tronco, ’n pensiere leggerai, che pare monco; che sia ’l sole, o ’l nuvolo, o che piova, a ben capìllo ognun che passa prova: “Io so’ ’l gatto e l’ostello se ne giova”.482
I.: Ha memoria di qualche uomo, animale od albero che rimasero folgorati dal fulmine?
D.: ’N’òmo che su I Spacchi l’acqua l’éa chiappato, pe’ ’nna saetta ci armase fulminato. Docché ’l fulmine la vita jja stroncato, de legno ’na croce ci éveno piantato. De ’sta croce, ch’era ’na volta secca, sana, trova’ nne pòi manco ’na stecca. “La terra anchi dal fulmine l’arègge”: ma ’tisto t’afiarò ben più de ’n gregge. Del monte tante vacche su la roccia, giù ’n Casalvènto, la cavalla del Bòccia, ’na cerqua de Ruggier ’nte La Macchietta, su ’n Pian de’ Porci tutta la campetta. Ma più de tutti, ’l fulmine ci ha dato, ’nte ’n posto “La Fulminàra” nominato, che de Varràchena sta ’nte la bugàta, do’ tanti faggi hon preso la fiaràta. Dìcheno che toquì ’l ferro ce sia, ché tutti i fulmini se tène per lia.483 I.: Vi è qualche luogo dal quale le tempeste si scatenano con maggior virulenza?
D.: Quanno che tròna, forte, su Le Fagge, senti’ ’n se pòle canta’ manco le gàgge, senti’ non pòssi lo stragina’ de trégge, e, manco ’n bèlo, levàsse da ’n grègge. ’L lampo fa giorno, giù le scure Piagge, che, solàte, pàrgheno le spiagge; fa, de fulmine, ’ni rama, du’ crepégge; su la terra, che da lue sempre l’arègge. ’N fùlmino cade da cima ’L Nofégge, fa, de ’n faggio, mijàri de schegge, ’nvéce de ’n chiòppo, se sènten du’ saràcche, de ’na golana fa, ’l fulmine, du’ pacche; de una sola, fa, ’n fulmine, du fagge: pî muratori èn pronte già le stagge.484 De quel che so, io v’ho ditto tutto … mo’ vò a magna’ du’ fette de presciutto. Du’ fette rodo co’ ’n morso de pane, e, quel ch’armàne, lo lascio dal cane. Io ve saluto e ve dico addio, mo’ che partite da ’sto Monte mio. Quann’arsaréte ’nte ’l mondo de la boria, da tutti arcontàtela ’sta storia. Tutto arcontate e dite solo ’l vero: sinnò ve chiappo e ve grullo comme ’n pero. “La volpe giù ppe’ ’l fosso arizza485 ’l pelo”486…sinnò ve chiappo e ve grullo comme ’n melo. Io non so’ ’l billo, io te li sbróllo i ossi487 e, po’, li chiappo e li butto giù ppi fossi. Ve busso col bastone de corgnàle, che tutti i ossi róppe e non fa male! Io ve sturpio tutta la compostura, che rigalato v’ha matre Natura!488 De’n pòro vecchio è la storia vera, che vive ’nte ’l paese senza sera, che vive ’nte ’l paese senza notte, ’nguattàto ’nte le bocche de le grotte. Amo’ me fo ’n bel goccio de vino, ché da magna’ ci ho ’n billo marino. ».489 De quel che so, io v’ho ditto tutto … mo’ vo a magna’ du’ fette de presciutto. Du’ fette rodo co’ ’n morso de pane, e, quel ch’armàne, lo lascio dal cane. Io ve saluto e ve dico addio, mo’ che partite da ’sto Monte mio. Quann’arsaréte ’nte ’l mondo de la boria, da tutti arcontàtela ’sta storia. Tutto arcontate e dite solo ’l vero: sinnò ve chiappo e ve grullo comme ’n pero. “La volpe giù ppe’ ’l fosso arìzza490 ’l pelo”491…sinnò ve chiappo e ve grullo comme ’n melo. Io non so’ ’l billo, io te li sbróllo i ossi492 e, po’, li chiappo e li butto giù ppi fossi. Ve busso col bastone de corgnàle, che tutti i ossi róppe e non fa male! Io ve sturpio tutta la compostura, che rigalato v’ha matre Natura!493 De’n pòro vecchio è la storia vera, che vive ’nte ’l paese senza sera, che vive ’nte ’l paese senza notte, ’nguattàto ’nte le bocche de le grotte. Amo’ me fo ’n bel goccio de vino, ché da magna’ ci ho ’n billo marino…».494 L’òmo che viaggia se crede d’èsse ’n re, però, a la fine, s’acòrge solo che: “si, del mondo, vòl fa’, lu’, ’l girotondo: Scheggia, Costaciàro e Colpalombo!”495». “Si volemo tira’ avanti ’nte la vita, tòcca i bòvi arcarca’ pe’ la sallìta”.496
I.: Cosa ne pensa, signor Diàntene, degli attuali pellegrini giubilari?
D.: “San Rocco, San Rocco, ’na scarpa e ’nno zòcco!”. Col bastone San Rocco caminava, e col cane, che lo seguitava, col bordone giva Giacomino, e co’ ’nna scarsa, ’nna scarsèlla ’e vino. San Giacomo, che mai non s’amerìggia, drent’a ’na chiesa, lo venera La Schiggia. Ade’, ’nvéce, vòn via co’ l’apparécchio, màgnon, bévon, dòrmeno parécchio. Quanto, poi, a parla’ de religione, da chi ce crede, jje dìcheno cojjóne.497 Si ’l dimògno te vòi tène lontano, legno stregone sempre su le mano, si d’ogni strega, tu, te vòi slontana’, ’na fùrcina sott’al collo hai da porta’, ’n’inforchetta porta’, mo’ te lo dico, ad ogn’ora, porta’, devi de fico, mai, proprio mai, hai da voltàtte adiètro, non nomina’ mai ’l nòme de San Pietro, dei Santi, de la Madonna e Iddio, non invoca’ mai nòme, o fiòlo mio! Si tu ’nte ’n casa arporta’, vòi, tutti jj’òssi, quel che t’ho ’itto, fa in Croce dî Fossi! Tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, che da qui dista guàsi mille leghe, tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, docché arparate ce s’èn cinquanta freghe, tutto tu fa l’al Fosso che Chiacchiera, docché lavàtte tu pòssi d’ogni piàcchera, ché sì è chiamato, ’sto fosso, dettoquì, ché cento voci pìa l’acqua de diquì. A Lo Scòjjo de Streghe, ’no stregone, parla’ coi morti fece più persone. Si mantène, lontano, vòi Bofogno, pe’ sti lòchi passa per Sant’Antogno! Quanno ch’urla’ me sentirai tu: Vanne! Festa e fiera farai per San Giovanne .498 Da l’acqua s’arpàreno, e dal vento, le streghe angrumàte a Boninvènto! A Boninvènto, sott’a ’na gran noce, ’n’ardunàta fanno ’n bel po’ atroce, ch’a tutto ’l mondo, al mondo ’ntero, nòce. A Boninvènto, sott’a ’n noce maschio, mìschieno le voce ’nte ’n gran ràschio. Si ’nte ’l caldaro loro ’n te vòi còce, da Domineddio lancia ’nna voce.499 E… si vòi fa’ ’l cammino tutto intero:500 “pista sul nero, ché ’l bianco ’n dice ’l vero!”501 Mo’ ’l vino bevemo ’nte ’sta gràlla: guàrdela bene e véde d’arcordàlla, ché, si l’arvédi, tanto essa è bella, ch’a meno ’n pòssi fa’ d’arconoscélla. Tanti la guàrdeno e ’n la védeno, e ch’è solo ’nna coppa lór se crédeno. Quanno la grazia, al’improvìso, vène, beato chi capisce e se la tène. Ma, più d’ogn’altra cosa, questa gràlla, col nome proprio te tòcca chiamàlla.502
I.: E, allora, il Diàntene, presomi in braccio, mi condusse fin sulla cima e, là, mi indicò le vie della montagna. Lassù, mi insegnò le quattro direzioni dello spazio e, fattasi notte, mi indicò Cassiopea e Altair, la luna e la stella polare. Alcune nuvole, mosse da un vento poderoso, navigavano nel cielo da nord a sud e, coprendo la luna, si accendevano di una luce rosea e tenue e ci pareva di viaggiare, assieme a loro, verso nuove terre e nuovi cieli. Il grande vento scompigliava i lunghi capelli bianchi e la barba dell’essere che, come vele, si gonfiavano nella sua direzione, coprendo il volto del Diàntene ed indicando il Mezzogiorno. Vedemmo molti occhi lampeggiare come fari e correre giù per la scarpata. «Sono lupi, -mi disse il Diàntene- ed anch’essi, come me, fuggono gli uomini e, loro malgrado, preferiscono le tenebre alla luce. Se non li fuggirai, ti saranno fratelli e ti insegneranno i segreti del bosco». Dopo queste parole, scendemmo giù per la precipite balza e mi stupii alquanto nel vedere con quale agilità questo grande Essere balzasse da una roccia all’altra, da un picco al successivo senza la minima esitazione e quasi senza alcun peso. Giunti che fummo in un luogo detto Il Capètello, vidi lentamente emergere intorno a noi molti ruderi di antiche costruzioni, ormai abbandonate all’assedio di una vegetazione esuberante e repulsiva. Il Diàntene prese allora a raccontarmi come lì, anticamente, sorgesse un grande tempio eretto al Dio Picchio che, qui passando, indicava agli uomini la giusta via da seguire sulle strade della terra. Seppi poi che, su questi monti, un tempo vivevano cervi e camosci, orsi e caprioli, linci ed avvoltoi e le genti vi salivano a piedi nudi e si prosternavano sotto di essi come di fronte ad un tempio. Seppi poi l’origine dei nomi di molti luoghi e, coi nomi, evocammo lo Spirito della Montagna. E lo Spirito ci sospinse sulle sue ali e volammo, volammo follemente dalla cima alle falde del Monte, sopra nastri di sentieri che, come nodi d’amore, l’avvolgevano in un abbraccio festoso. L’Essere mi volle poi condurre fin sul ciglio della grande balza. Là, il Diàntene pronunciò sommessamente una parola segreta e, con essa, invocammo di nuovo lo Spirito della Montagna e a tutti gli esseri e a tutte le cose demmo nomi congeniali alla propria singolare natura, cosicché, dolcemente destati dal loro sonno millenario, fossero richiamati alla vita e iniziassero ad esserci fratelli e a parlarci con il loro meraviglioso linguaggio, fatto di eloquente silenzio. In séguito, ci addentrammo nelle concave forre ed uscimmo su vasti pianori erbosi, dove il Diàntene, vista accendersi la prima stella, volle infine riposarsi. Al sorgere della luna, col suo roco e lamentoso canto, la civetta, gallo della notte, annunciava il montare delle tenebre dalle profondità insondate della terra. Al primo rintocco ovattato di questa campana a morto, il cui batacchio pareva ravvolto nel muschio, tutti gli esseri e le cose del mondo d’ombra, umbratili ed elusive creature del crepuscolo, si animarono di una loro fremente ma impalpabile esistenza, che solo il magico tocco delle dita rosate dell’aurora avrebbe fatto di nuovo frettolosamente eclissare nelle loro tane, eterni coni d’ombra, dove la luna non tramonta mai. E, cullati da questa campana, dormimmo. Dormimmo stremati ma felici e dormimmo prima che la notte scendesse a consolare gli uomini e le cose. Dormivamo, e con noi dormivano le alte vette e i profondi abissi della terra e del mare, gli animali predatori ed i mansueti erbivori, i rettili silenziosi e le vocianti gazze, gli alberi giganteschi e le tenere erbe. E la terra intera dormiva ed il Cosmo, e noi con Lui e Lui in noi. Poiché ormai noi eravamo il Cosmo e nulla più ci distingueva da ciò che esiste e da ciò che non esiste. Non dormivamo che un solo, unico sonno, io e l’Essere, e sognavamo un solo, unico sogno, e, nel sogno, le nostre essenze si fusero ed io fui il Diàntene ed il Diàntene fu me stesso. Noi fummo la Montagna e tutto ciò che essa contiene. Compiuto il suo viaggio, la nave della notte mi traghettò sulle chiare rive dell’alba. Quando mi svegliai, chiamai l’Essere, ma Egli non mi rispose. Lo cercai nella profonda caverna, sulla cima del Monte, sotto il grande faggio, ma non riuscii... no... non potei più ritrovarlo. Credetti allora di sentirlo ridere, come a volte faceva per annunciare la sua presenza e rassicurarmi quando mi vedeva spaventato, ma era solo il ghigno del vento. Mi parve poi di sentirlo piangere calde lacrime, ma era solo lo scroscio dei gelidi ruscelli. Mi sembrò perfino di udirlo suonare, ma era solo il canto stridulo delle gazze. Quando ormai credevo di averlo perduto per sempre, cercai in me stesso e, finalmente, sentii la sua risata risuonare con lieto fragore nelle profondità del mio essere e fui felice. Passai tutto il resto della mia vita a ricercare la sua immagine sfuggente e, pur sentendola in me spiritualmente, avrei anche voluto ristringere la sua ruvida mano e lisciare il suo vello cespuglioso. Ancora oggi mi chiedo chi fosse quell’umbratile ed elusivo Essere buono e se veramente io l’abbia visto o non sia stata piuttosto la mia fervida fantasia a crearlo. Di una sola cosa sono certo: Egli vive in me ed io in lui. E, seduto accanto al fuoco nelle fredde ed interminabili notti invernali, tornerò di nuovo a narrare questa storia ai miei figli, perché, anch’essi, vadano a cercare quell’Essere sotto la grande balza. Per ora, torno alla mia grande quercia, ove giocai bambino, e mi piace guardare i due torrenti unirsi con fatica e mischiare le loro acque chiare e scure ed uscire estenuati dalla lotta, come due guerrieri che cadano entrambi stremati, senza che vi sia vinto né vincitore. Ed ero già vecchio quando, nel cuore di una notte di plenilunio, il Diàntene, parlandomi in sogno, volle svelarmi un mistero cosmico, che, al tempo del nostro primo incontro, la mia mente non avrebbe mai potuto penetrare: la mitica nascita dei nomi di esseri, cose e luoghi dell’Universo. Così parlò il Diàntene:
«L’essere pronunciò la parola segreta, e, con essa, evocò lo spirito cosmico. Lo Spirito, dette nomi appropriati alla singolare natura di tutti gli esseri e le cose di questo mondo, cosicché, ridestati dal loro sonno di morte, fossero richiamati alla vita e iniziassero a parlare all’uomo con il loro incantato linguaggio, d’eloquente silenzio. Allora, l’occhio dell’uomo colse l’immagine nel Cosmo. L’immagine rimbalzò all’anima. L’anima si fece parola e, la parola, scese come neve sugli esseri e le cose inanimate, che, così, si fecero simili all’uomo: risero alle sue gioie e piansero dei suoi dolori. La parola, con voce soffiata dal vento, destò cose ed esseri dal loro sonno millenario. Fu allora, e solo allora, che, con i loro occhi color del mare, questi si volsero all’uomo ed egli, prendendoli per mano, li accompagnò alle praterie traboccanti di latte, ai fiumi fluenti di miele. Là, presero a correre follemente insieme. Là, li bagnò la pioggia e li rasciugò il sole. Là, furono stregati dal pallido volto della luna. E, a sera, le cose si giacquero, come fresche spose, nel gran letto della Natura primigenia, dalle lenzuola tempestate di fiori. E, d’improvviso, alla vista del magnifico coperchio di un cielo intagliato nel cristallo e occhieggiante di fuochi d’oro, caddero tra le braccia di Morfeo. Accanto ad esse, si distese l’uomo. E, cose ed uomo, si congiunsero nell’amore fino a confondere le loro differenti nature, rendendole affatto indistinguibili. E, infine, dal loro amore, nacque un figlio, al quale più tardi, ma solo molto più tardi, furono dati appellativi congeniali alla sua particolare natura: si chiamò Nume, Nome, Toponimo…». Molto più tardi, e ormai alla fine della mia esistenza, ripensando all’indimenticabile incontro che avevo avuto con lo Spirito della Montagna, mi venne l’ispirazione di scrivere una poesia sul mio adorato Monte di casa, sulle sue molte e misteriose grotte, e, infine sul vasto Spirito della Montagna, che, ormai, lo sentivo, aveva rianimato per sempre il mio essere, che, un tempo, era stato d’ombra».
Grandi ricchezze mi han donato i poveri: ricchezze di cultura e saggezza. la loro umiltà mi ha reso signore, poiché, ciò che da loro ho appreso, il fondamento dell’umiltà, rende ricchi nella povertà e meno infelici nella malasorte.
“ MONTE CUCCO”
O Monte Cucco, ovvero “Monte Grande”,503 che maggior luce e più calore spande. Nuovo Sole, Tu sorgi dalla valle, che tanti boschi avvolgon come scialle. O Monte Cucco, ovvero “Testagrossa”,504 che le Tue basi poggi giù alla “Fossa”.505 Tu, antico mare dall’increspate onde, che in faccia guardi “Motètte” con “Le Grónde”. Cima delle mie radici, Dolce più dei dolci amici. Vetta, Tu, dai mille fiori, Col Tuo corpo m’innamori Tu, in antico, “Chucchus”506 Monte, d’ispirazione, mia perenne fonte. “Montagna nuncupata507 Monte Cucco”, dura hai la scorza, ma, dentro, dolce il succo. Monte mio amèno, creatura minerale, tenero Monte, corazza di calcare: di Te son fatto, come di sale il mare. Ti sei incarnato, mio grande Monte Cucco, in un gigante,508 più forte d’un bel mucco.509 Tu, che il nome hai d’un ciclamino,510 della mia vita, retto, sei il cammino, Tu, che il nome porti d’un uccello,511 hai volo d’aquila e corpo di fanello. Monte dalla pancia vuota, a Te attorno tutto ruota. Monte vivo, che respiri, e, al Tuo centro, tutto attiri. L’acqua, solida, la roccia, T’ha scavato, goccia a goccia. Tutta quella che raccogli, alla “Scirca” la convogli. Qui c’è “la madre di tutte le vene”,512 che, d’acqua pura, potrebbe fare piene, ogni secondo, centonovanta, e più ancóra, bottiglie, se messe non gli avessero “le briglie”.513 Solenni faggi, colonnari e foschi, fanno di Te, da oriente a settentrione, lussureggiante un’unica regione. Pochi faggeti hai Tu ad occidente, perché, del sole, il dardo è più tagliente: “Faggeto Tondo”, “Pìgnola” e “Mandràcce”514, fra i prati verdi, le boschive tracce. Dalla “Fida”515 fino al “Fosso del Cupo”,516 dove una volta ululava il lupo, sopra di noi volteggiano le rupi, voli d’aquila impietriti nei dirupi. Sotto di noi, a molti affatto estranea, vasta s’apre regione sotterranea, che, dalla cima, arriva giù alla “Scirca”,517 sprofondando per mille metri “incirca”. Da quella parte, dove nasce il sole, eterno, sempre, un fosso scorrer suole. Alla “Fonte” nascendo “d’Acqua Fredda”,518 passa “La Fida”, entrando in una stretta, precipite ed ombrosa spaccatura, che a tutti quanti fa grande paura, che di “Rio Freddo”, “Forra” è nominata, anche se “Bocca Nera” fu chiamata.519 Sotto le balze, un Eremo s’annida, gli scorre ai piedi l’acqua della “Fida”. Sopra Sigillo v’è una “balza” scura, “delle Lecce” chiamata “Spaccatura”. Sopra un poggetto della balza pizzuta, lo strano “Orto” ci sta “della Cicùta”.520 In alto, nel cielo, T’innalzi, superbo, ed io che Ti guardo, dal basso, son preso d’ammirazione e m’inchino a Te d’innanzi. Io sono un nonnulla in mezzo ai dirupi scavati dal tempo, e, con me, esseri e cose sono ai Tuoi piedi annichiliti. Cozzano le nubi, di pioggia pesanti, di contro ai Tuoi scogli calcarei, lucenti, come se s’infrangessero su un paracarro. Mentre sopito, d’un sonno profondo, dormi, una scala puntata è nel cielo, perché possan violarTi nuovi giganti. Una porta, segreta, nel regno di Pluto,521 s’apre, nel fianco, e l’uomo conduce ne’ perigliosi recessi d’atre caverne. E quei che discende, com’io pure scesi, estatico ammira le secolari stalàttiti e stalàgmiti. Ma nero, degli antri, profondo, il silenzio, violato dal debil pallore di lampe, al cuore appare, pesante, come di tomba. E poi si risale, in alto, alla luce, come, dagli inferi regni, salì Orfeo.522 In alto hai la cima, che sempre percuotono turbini e venti. Poiché non si frange, di sole risplende, e d’aurore, perennemente.
Abissi Neri abissi della terra, il vostro buio è luce, plenitudine il vostro vuoto. Nelle vostre sfolgoranti tenebre voglio accecare la mia vista troppo acuta. E precipitare, io voglio, nel mare delle vostre ombre, e mai più emergere da esso. Annegare voglio nella vostra immensità e il vostro silenzio sia l’arcana musica che mi culli in eterno. E la mia solitudine sia magnificata dalla vostra vacuità incolore, affinché il vostro Nulla sia il mio Tutto. Di vuoto voglio riempirmi, e ritornare a quel Nulla, da cui ebbero origine tutte le cose. Silenzio, Solitudine e Tenebre, siate i miei padroni ed annullate il mio essere nel vostro Nulla, ricolmo di Tutto.
Spirito della Montagna
A Te un altare voglio innalzare, Spirito della Montagna, di sudore e di sangue impastarne la calce, di lacrime e riso voglio farlo, e, facendolo, cantare la Tua gloria voglio, Spirito del Mare, dell’Alto e del Basso unico reggitore, delle infere regioni fiato possente, che le nubi sollevi e sospingi e degli uomini schiacci l’insensato orgoglio. A Te, un altare di carne ed ossa, di bontà e cattiveria erigere voglio, Spirito della nera terra, che ci volesti un giorno innalzare al di sopra di essa, perché potessimo sporgerci ad afferrare un azzurro lembo di cielo. A Te un altare voglio dedicare, di sogno e realtà, di neve e di fuoco, voglio costruire, Spirito delle Sorgenti, che dai calcinati ossami della terra, con vivificante impeto, grandi, gelidi e turbinosi torrenti fai scaturire. A Te, che fai fiorire il deserto, Spirito della Pioggia, un altare di sabbia e fumo erigere voglio. E, quando, quest’altare sia finalmente compiuto, su di esso voglio ardere le mie carni, Spirito del Vento, e le aeree ceneri posare voglio sul Tuo ansante petto, Spirito della Vita. E le mie disperse parti, in una sola essenza riunire voglio, Spirito della morte, e, nella morte trovare la vita, e, nell’olocausto del fuoco, al fuoco il mio riso mostrare, Spirito della Gioia e del Dolore, re del Tutto e re del Nulla. Eterna Unità, Spirito immenso ed indiviso, fa’ di me , folle scoria del Tuo Tutto, molecola essenziale del Tuo Nulla. In te, Spirito, voglio scomparire e lasciare la dolorosa coscienza del dolore e della morte, che, quale belva feroce e insaziabile, dilania il mio spirito. In Te morire voglio e il desiderio supremo, in Te, spegnere, affogando nella folle coppa, che trabocca del Tuo vino rosseggiante e vivificante nel profondo. E, bevendo, ridere, ebbro nella plenitudine della Tua luce, per sempre, Spirito!
Òmini originari
S’era ’nto ’l mezzo del milleducento, quanno ch’avénne, bòno, quest’evento. Pecorari, legnaroli e carbonari, del Castel de Costaciàro Originari, de liberasse se sènteno smagnósi dal “giogo greve” dî patrón boriosi e métteno ’nsième ’l frutto del sudore, del sangue fatto amaro, e del delóre, du’ monti comprando, più ’L Porrìno: tre vèrdi cime del Monte Apennìno, ’L Cucco, Monte Porrìno e Pantanella ènno ’l principio de ’sta storia bella. Pietro Òddolo co’ i eredi Monaldelli décero via questi tre mmonti belli. ’L dìchen pergamene ’n po’ tarmìte, da notari, con scrùppolo, arfinìte. ’L dìchen pergamene e ’ncartamènti, ’stormènti rugati e documènti. Quî tre mmonti ènno su lo stendardo, co’ la balestra ’nsième e senza ’l dardo, co’ la balestra ’nsième e co’ le stèlle, de Costaciàro le chiare sentinelle. Altre terre compramo dal duca d’Urbino, che per “tre pezze de panno gubbino”, una bianca, l’altre celeste e vèrde, la propietà de ’tésti monti perde. Da Montefeltro, ’l duca Guidobaldo, de ’sti lòchi s’antàsca, alóra, ’l saldo. Era ’l millequattrocentottantasette quanno ’l duca ’sti posti ce cedette. Era l’inizio del milleseicento, quando ch’avénne ’sto scontro violento. Francesco Maria, Duca Secondo, credèndose patrón de tutto ’l mondo, vòlse accampa’ ’n diritto su ’sto monte, che solo ci ebbe ’n suo antenato conte. Alóra manda ’n bon gruppo de guardiani, co’ l’archibugio tutti su le mani, cercando da ’mpedi’, che òmo avaro, che ’l monte fusse più de Costaciàro. Ma i Costaciaròli de ’na volta, ’nte du’ menuti scendeno ’n rivolta; ecco, li vedo, s’arduneno, pian piano, belli ’nguastiti e coi bastoni in mano. “Si én da mori’, ben sarìmo morti, vendicando, col sangue, tanti torti. Spiccando ’l volo, èsteli sul Cucco, docché se sente, unico, ’n grand’ucco. Tutti i guardiani bastoneno, ben bene, uno ad uno moràndojje le vene. ’Sti òmini forti, i guardian del Duca, métteno ’n rotta, e, presto, ’n fretta e ’n fuga. ’Pena ’visato, Checco de la Rovere, eccolo a Costaciàr sùbbito piovere. Vòle fa’ lu’ ’n processo dove i soli, gastigati saròn Costaciaròli. Ma, più Costaciaròli, d’api comme ’n favo, vóleno dritti verso Urbano Ottavo. ’L Papa capisce chi è l’usurpatore e dî Costaciaròli è ’l salvatore: “ènno ’sti mostri che v’honno levato, quello ch’è vostro e ve séte meritato. Bene ascoltate, e armarréte de stucco: sempre vostro sarà ’sto Monte Cucco, e, chi ’n ce crede, la testa io jje stucco. Ma, commme che la prescia ’n vòl la fuga, drent’a ’na buga te cade pure ’l duca, col suo cavallo, e col cappel de feltro, l’ultimo a vive de quei de Montefeltro. Per fa’ spari’ d’Urbino i gran patróni, Costaciàro ricorse da i bastoni. Per afrancàcce via damo anche le fedi, liberandoce dai ceppi de ta i pièdi. De tutti i òmini, la sola volontà, fu de fonda’ quest’Università. Apostolica, la reverenda casa, cercò più volte de fa’ la barba rasa dei diritti, co’ i secoli ’quistati, lasciando noi Condòmini “’gnudàti”. Però, alóra, Apostolica la Càmbera, ’ste terre propio non l’ancàmbera. ’Na montagna, Cucco nominata, da ’tésti Originari fu ’quistàta: ’na montagna, ’nsième co’ i mulini, ’na caciàra e più terre da vini. Co’ l’afrancàsse da ’n signore avaro, fonda’ hon podùto ’l Castel de Costaciàro. Più de ’nna volta quest’Istituzione venne ’n soccorso da la popolazione, la legna de La Pìgnola donando e ’l forno comunale alimentando. ’Nte la Buga, detta de la Conserva, de neve noi ci evàmo ’na riserva. ’Na riserva de neve e de ghiaccio che permetteva dî generi lo spaccio. Per otto secoli questi belli monti, con ranchi e cèse, riguardati e fonti, lavorandoli, l’êm salvaguardati ed ai fii nostri, intatti, consegnati. De cento ceppi, che ’n tempo eravamo, quarantadue, ade’, apéna ne famo. Del monte, la comune propietà, dai fiòli maschi damo in eredità. Tanto utile ’l dominio, che diretto, esercitamo in modo corretto. ’Nte ’l Medioevo ci évamo ’nno statuto: ’nte l’Ottocento l’émo ariveduto. In esso è scritto chiaro, co’ l’inchiostro, nero su bianco, l’imperativo nostro: «Pubblico l’utile hai sempre da arcerca’, e non per te i quadrìni ansaccocia’!». Milleseicento ettari, ade’, c’émo: ’m po’ più de novecento ènno de boschi, torsìni faggi, matriàli e foschi, fanno del monte, da oriente a setentrione, verdureggiante ’na sola regione. Pochi ènno i faggeti ad occidente, perché, del sole, ’l raggio è più cocente: Faggeto Tondo, Pìgnola e Mandràcce, fra i prati verdi, le boschive tracce. Da La Fida fin’al Fosso del Cupo, docché ’na volta urlava forte ’l lupo, sopre noialtri svolàzzeno le sbalze, voli d’aquila ’mmarmìti e de scodàlze. Sotto de noi, a tanti poco nota, grossa s’òpre del monte panza vòta, che, da la cima, arìva giù La Scirca, sprefondando per mille metri circa. Toquì è La matre de tutte le vene, che d’acqua pura potrebbe rempi’ piene, ogni secondo, centonovanta e ancóra più butìjje, si messe non ’gn’éssero “le brìjje”. Da quela parte, docché nasce ’l sole, eterno, ’n fosso sempre scórre sòle. A la Fonte nascendo d’Acqua Fredda, passa La Fida entrando ’nte ’nna stretta, scòmida e meriggiósa spaccatura, che a tutti quanti fa ’na gran paura, che de Rio Freddo Forra è nominata, anchi si Bocca Nera fu chiamata. Sott’a le sbalze, ’n convento s’anìda, jje scorre ai piedi l’acqua de La Fida. Sopre Segillo c’è ’nna balza scura, de Le Lecce chiamata Spaccatura. Sopre ’n poggetto de ’sta sbalza pizzuta, lo strano Orto ce sta de la Cicùta. De ’sta sbalza Segillo è ’l sol patróne: de leccia, gìssimo a fàcce ’l carbone. Con Segillo litigammo pî confini: mai più noi l’arfarémo co’ i vicini. Tra Perugia e Urbino era la lite, ché noi s’én stati sempre gente mite. Gente onesta, veri òmini d’onore, che mai cóveno, ’dormìto, ’n sol rancore. Tutti eguali noi sémo ’nte ’l Concorzio, ché, col classismo, ci émo fatto divorzio. De noi nisciuno a l’altro è superiore, dal profesore a l’ultimo pastore. Su ppe’ ’ste cime, ch’ènno state “are”, pàscere podémo e, anchi,… “legnàre”!. De legna ciascheduno ha la sua parte, del boscaiolo conoscendo l’arte. Condòmine fu anchi ’l gran Tomàsso, che la sua vita, sott’a l’alto sasso, tutta la spese facendo la dieta, del mondo rifiutando la moneta. De la famìjja ’l Beato era Grasselli: tutti Condòmini, bravi bòni e belli. Per terre podémo gi’, per monti e mari: fieri noi sémo d’èsse… “Originari”!
GIOVE APPENNINO Quando dal cielo fortemente piove, è solo Te che ho in mente, o Padre Giove. Giove Sommo, Giove Pluvio, che scateni ogni diluvio. Tu, grand’eco nelle rupi, rimbalzante nei dirupi, ulular di mille lupi. Tu, lampante e Tu saettante, Ti riveli in un istante. Tu, che scagli la saetta, metti in atto la vendetta. Quando cadono i Tuoi dardi, Ogni luogo Tu lo ardi; Quando, poi, lanci i Tuoi strali, tutti gli esseri fai uguali. Tu, il più grande, il Dio del Cielo, che lo squarci come un velo. Tu, che il gran cumulonembo, lo trascini per un lembo, e lo culli nel Tuo grembo, pronto per un nuovo arrembo, Tu, dell’aquila il gran volo, Tu, il Dio grande, tu il Dio solo. Ottimo massimo, Tu, il Dio, Tu, dell’aria, il mormorìo, Tu, del ciel, lo sfavillìo, Tu, di nubi, il brontolìo, Tu di lampi, il balenìo, nella pioggia, grandinìo, di tempeste, il turbinìo, dell’alba, Tu, baluginìo. O supremo e grand’Iddio, Tu, che fai l’iradiddio, Tu, gran Giove della Rovere, che su essa sai far piovere le Tue fulminee folgori, Tu, che, più di tutti, sfolgori, Tu, che, su terreno empio, fai innalzare, alto, un tempio, Tu, che appari in un baleno, Tu, che sei battibaleno, Tu, che sei l’arcobaleno. Di pietra, su una sede, votiva, una dedica si vede, alla Piaggia dei Bagni ritrovata, ed al Giove Appennino consacrata, al “Dio della Montagna” dedicata, al gran “Giove della Balza”, Che, qui, altissima, s’innalza. Tu, chiamato, un dì, “Grabovio”, Tu, imponente Padre Giovio, Tu sei gran nube pluviale, Tu sei gran sole gioviale, Tu, nella Foce de Sombo, sei padron d’ogni strapiombo. Forte, rimbomba il Tuo suono, ché Tu sei Rombo di Tuono, alte giungon le tue voci, dei miei monti Genius Loci. Un altare innalzar voglio, a Te, Giove dello Scoglio. Spirito dell’Alto Monte, Tu, tra cielo e terra, Ponte, acqua pura d’ogni fonte. Te, che pieghi in noi l’orgoglio, prego forte in questo foglio, perché, o Spirito del Cielo, squarci di menzogna il velo. Reggitore d’Alte Sfere, rendi, giorno, a noi, le sere. Tu, che le nubi sollevi, rendi i nostri affanni lievi; Tu, che le nubi sospingi, noi, in immenso abbraccio, stringi! Schiaccia, ora, in noi, l’orgoglio e in chi imbratta questo foglio! di Euro Puletti1 Questo, che è uno dei Cinque pensieri di filosofia e morale di Leonardo, va interpretato nel senso, che solo il silenzio, che scaturisce dalla solitudine, consente all’uomo di porsi all’ascolto della voce più profonda del proprio animo. 2 Nella tradizione popolare locale, il termine Diàntene rappresenta una forma eufemistica, sovente impiegata per alludere indirettamente al diavolo, il cui vero nome, se incautamente pronunciato, basterebbe, da solo, ad evocarne l’insidiosa presenza. Forme simili al termine Diàntene si hanno in Umbria, Diàntena, Diàmmene, Diàmmena, e Toscana: Diàntine, Diàncine. Assai singolari appaiono i femminili Diàntena e Diàmmena. Essi dovrebbero denunciare la radicata credenza popolare, secondo la quale il diavolo sarebbe di genere e natura femminile, anzi, meglio, esso sarebbe “la donna in persona”. 3 ‘Località boscosa e rupestre del Monte Cucco’. 4 La voragine Bocca Nera è una delle principali grotte del Monte Cucco. 5 Il Diàntene allude ad un famoso miracolo, operato dal beato Tomasso da Costacciaro, il quale, nei pressi del suo paese natale di Costa San Savino, percuotendo la roccia con un bastone, fece scaturire una sorgente ancor oggi attiva. 6 «’Nte ’n» = ‘in, nel’. 7 «’Nte ’n» = ‘in un’. 8 «’Nte la» = ‘nella’. 9 «Seguita’» = ‘seguire’. 10 «Giù ppi stradelli avèrsi» = ‘giù per i sentieri avversi, disagevoli, dissestati’. 11 «Bagajjàte…» La voce verbale vale, letteralmente, ‘fare baccano’. Qui è, invece, intesa, in un significato più ampio, come: ‘parlare in maniera altisonante, ma priva di senso’. 12 ‘Sciocchi’. 13 «[…]’n gne métte […]» = (alla lettera): ‘non gli mettere’, vale a dire, nella forma italiana corrente, ‘non mettergli’. 14 «Métte i còrni» = ‘mettere le corna’. 15 «’Gni matìna» = ‘ogni mattina’. 16 «Ranca su» = ‘sale’. 17 ‘fisicamente forte’. 18 «Da se’ che» = ‘da quando’ 19 «Da cima» = ‘in cima’. 20 «Da pièdi» = ‘in fondo’. 21 «Monte […] Chiàcio» = il Monte Cucco e il Fiume Chiascio: limiti estremi ed invalicabili dell’universo condensato in cui è relegato il Diàntene. 22 «’Ncuccàto » = ‘nascosto, appartato, volontariamente isolato’. 23Si noti il cambiamento di stile: il Diàntene, parlando di un nobile locale, suo intimo amico, usa la lingua italiana, tessendogli, inoltre, addirittura un elogio in latino, idioma che Egli, creatura dalla scienza infusa, conosce naturalmente benissimo. «[…]Simonetti è ser Guerriero […]» = ‘R.q.V. Guerriero Simonetti di Villa Scirca, probabile discendente del nobilissimo casato nobiliare De Guelfonibus di Costacciaro, che possedeva proprietà terriere a Villa Scirca, e, forse, addirittura un Castello, quello di Ghelfóne, probabilmente identificabile con i locali ruderi della fortificazione altomedioevale di Castelvècchio. «Saràga […] Scariàl […] Castelvècchio […] Carpenàccio […]» = ‘antichi nomi di località prossime all’abitato di Villa Scirca’. «Scircanti […]» = ‘etnonimo, con terminazione in -ànti, indicante gli abitanti di Villa Scirca’ ed esemplato sul modello di Villanti, Costanti, Scheggianti, rispettivamente abitanti di Villa Col de’ Canali, Costa San Savino, Scheggia’. 24 «“Legno per punta, e donna per piano, arèggon, m’hai da crede, ’l mondo sano!”» = ‘palo confitto verticalmente (metafora del pene umano) e donna distesa orizzontalmente nell’atto sessuale sorregono, mi devi credere, il mondo intero’. Tale proverbio popolare esprime metaforicamente la vitale importanza e l’essenzialità assoluta dell’atto sessuale, come mezzo per perpetuare la specie umana («’l mondo sano»). Il Diàntene fa, qui, la metafora della metafora, volendo significare l’essenzialità del ruolo che andranno a svolgere le donne nel nuovo millennio, donne che, per l’Essere della montagna, incarnano tanto la dimensione orizzontale (materiale) che quella verticale (morale e spirituale), destinate ad unirsi negli anni duemila. Con l’ausilio simbolico del palo, diritto e ben piantato nel terreno, il Diàntene delinea i tratti essenziali della donna del terzo millennio, con i piedi ben piantati per terra e lo sguardo rivolto verso un futuro di nuove conquiste morali, politiche e civili. 25 «Si ’na mójje bòna e brava vòi ancontra’, troppa porcheria te tòcca bucina’! È de vipre ’na mela ’nte ’na balla: troppi pizzichi hai da pia’ per altrovàlla!». ‘Se vuoi trovare una moglie buona e brava, devi forzatamente rimestare molta immondizia! Riuscire in questa impresa, è lo stesso che ritrovare una mela gettata in un sacco pieno di vipere: prima di afferrarla, devi, infatti, inevitabilmente subire una serie ripetuta di pericolosi morsi!’. Questo ammonimento del Diàntene è desunto da un detto del territorio eugubino: «Pia’ mójje è comme a altrua’ ’nna mela ’nte ’n sacco de vipere!». 26 «Do ’l ciàffo» = l’espressione, derivando dal verbo dialettale ciaffa’ , ‘prendere, afferrare’, significa, alla lettera, ‘afferro con forza’. 27 «Smagnóso» = ‘smanioso’. Notare la forma aggettivale smagnóso, che costituisce un incrocio linguistico tra smania’, ‘smaniare’, e magna’, ‘mangiare’. Un tempo, la smania era, spesso, un desiderio irrefrenabile di cibo. 28 «Le donne tutte quante, lu’, ’ngarrìva, ma, coda tra le gambe, ppo’, s’arnìva, perché la donne più forti ènno del Diànte e più birbe, ’m bel po’, de ’nn’’estofante». = ‘Lui, il Diàntene, sferrava assalti amorosi («garrìva», letteralmente: ‘assaliva’) a tutte le donne, tornando, però, ed assai spesso, “cornuto e bastonato” dall’impresa, poiché le donne sono più forti del Diàntene e assai più furbe di qualsivoglia lestofante («’estofànte» = forma aferetica di lestofante). 29 Termine estremamente raro e generico, indicante l’azione consistente nel ‘fare toletta in fretta e alla bell’e meglio’. 30 ‘Arruffata, spettinata, in disordine’. 31 «Ppi» = ‘pei, per i’. 32 Località prativa del Massiccio del Monte Cucco, un tempo soggetta a colture agrarie. I luoghi in cui si conducevano tali coltivazioni erano detti cèse e ranchi: ‘porzioni di territorio strappate al bosco grazie al taglio, all'incendio ed all’estrazione di ceppaie e radici’, con un’operazione che si esemplificava nell’espressione popolare: arcavà ’l ranco. 33 «’Nteghìto » = ‘irrigidito per il freddo’. 34 «’N ce cape» = ‘non c’entra’. 35 ‘Sdraiarsi’. 36 Località valliva del Massiccio del Monte Cucco. 37 «Cólco da la merìgge» = ‘disteso all’ombra’. L’aggettivo e participio passato cólco (o colcàto) corrisponde all’italiano ‘coricato’. 38 «Mucco» = ‘vitello, torello’. 39 «Comme ’l bóssolo, io so’ semprevèrde: fòra ’l vèrde! fòra ’l tuo, ché ’l mio non perde!» = ‘io sono sempreverde, come lo è l’arbusto del bosso (Buxus sempervirens): mostrami il tuo di bosso, cioè la tua schiettezza e la tua forza, poiché, da questo confronto di opposte “tempre”, io, certamente, non riuscirò perdente! “Fòra ’l vèrde!” “Fòra ’l tuo, ché ’l mio non perde!”. Questa sorta di “contrasto” veniva pronunziato, durante il periodo quaresimale, da due ragazzi di Villa Col de’ Canali, i quali, essendosi incontrati casualmente, si sfidavano l’un l’altro a mostrare di portare con sé (la qual cosa era pressoché obbligatoria in tale periodo) un rametto di bosso (“vèrde”), arbusto assai frequente sui rilievi montuosi sovrastanti il paese pedemontano. Il significato racchiuso in questa pratica tradizionale resta per ora ignoto. Festoni di bosso erano comunque impiegati, come addobbo delle vie, durante le feste patronali di Scheggia e di Pascelupo, nonché, in quest’ultimo centro in occasione della festa della primavera. Era soprattutto la chiesa di San Bernardino da Siena ad essere adornata con quest’essenza sempreverde e sacra agli antichi Celti ed ai Romani. Il bosso, frutice raro in tutta l’Umbria, abbonda, invece, nella media valle del Torrente Sentino. 40 ‘Non me ne preoccupo’. 41 «Curucùzzo» = ‘cocuzzolo, culmine, sommità di un’altura’. 42 «Proferita» = ‘preferita’. 43 Località prativa del massiccio del Monte Cucco, il cui nome deriva dal fitonimo popolare òppio/oppièllo, detto, più comunemente, acero campestre o albero da vite (Acer campestre). L’acero campestre cresce spontaneo sul Monte Cucco, fino ad oltre mille metri di altitudine. 44 «Da giovinotto, févo le camporèlle, ’n mezz’a ’ste fratte, ’n mezz’a ’ste fratte belle! Quann’ero giovine, io, givo ad andéggio, e mai pensavo, e mai pensavo al peggio!» = ‘Quando ero un giovanotto, facevo di nascosto l’amore («févo le camporèlle». Fa’ le camporèlle: espressione popolare fossatana, parafrasabile, grosso modo, nella seguente maniera: ‘fare l’amore in campagna, nascondendosi fra i pagliai, le siepi’ [“le fratte”] o le scarpate [“i gréppi”]. Due varianti dialettali della medesima espressione erano: “Gi’ [vale a dire: ‘andare’] a fratte” e “Gi’ a gréppi”. Il sostantivo femminile plurale camporèlle risale all’antico plurale italiano càmpora, che aveva il significato di ‘campi’) nel folto di queste belle siepi! Quand’ero giovane, io andavo avanti e indietro («ad andéggio». Ad andéggio: locuzione avverbiale gualdese, grosso modo traducibile con l’espressione ‘in maniera ondivaga, altalenante, raffazzonata, improvvisata’. La forma dialettale andéggio rappresenta una probabile variante fonetica dell’italiano ondéggio, forse incrociata con il verbo andare), libero come l’onda del mare, non rivolgendo mai il mio pensiero al peggio’ 45 «Su la testa ci évo ’na sceponàra, che ’n la scarpiva manco la pinara. Adè’, che de capelli n’ho più venti, scarmijàto so’ da tutti i venti…» = ‘Un tempo avevo in testa un cespuglio (“sceponàra”, s.f., = dialettalismo lessicale eugubino, indicante un ‘folto cespuglio’. “Sceponàra”, tuttavia, assumendo un significato metaforico, diventa, talora, anche sinonimo di ‘chioma lunga, folta ed arruffata’) di capelli che non sarebbero stati strappati via neppure dalla piena di un corso d’acqua, ora, invece, che sul capo me ne rimangono soltanto venti, sono spettinato (“scarmijàto”, agg. e part. pass., = ‘scarmigliato’) da tutti i venti’. Notare il significato metaforico rappresentato dalle folte chiome possedute dal Diàntene in gioventù, chiome che neppure una gran piena avrebbe potuto strappare. Le prove della vita hanno ora reso il Diàntene quasi calvo, e, per di più, sulla landa desolata della sua mente si accaniscono tutti i venti turbinosi dell’esistenza e «le torme delle cure» di foscoliana memoria. 46 Il Sasso, il cui nome viene dal latino saxum, ‘rupe’, è un monolito calcareo, testimone dell’intensa erosione carsica che ha modellato il Monte Cucco. 47 «Ribùsto» = ‘robusto’. 48 In origine, il bastone de legno stregone era, probabilmente, una verga magica, associata a pràtiche scaramantiche ed apotropaiche. Il legno impiegato, l’agrifoglio, un sempreverde, simbolo d’immortalità, l’uso di lasciare lungo il tronco numerosi, irti spuntoni, probabili simboli di ardue prove da superare durante il cammino dell’esistenza (e, come molti “arnesi” acuminati, dotati del potere di allontanare il male, oltreché forniti della possibilità di servire come valida difesa in caso di reali attacchi, portati da animali selvatici), simboleggiato dal bastone stesso, sono tutti elementi che fanno propendere per un’interpretazione simbolica ed iniziatica della comune verga pastorale. Il bastone di sorbo montano contiene sicuramente precise valenze simboliche. Dopo essere stato ricavato dall’albero, infatti, il bastone veniva scortecciato e lasciato al sole perché assumesse la sua caratteristica colorazione rosso mattone. I bastoni rossi hanno numerosi significati e funzioni simbolici: in Cina quella di punire i colpevoli. In moltissime società segrete esistono dei bastoni rossi con i quali si infliggono punizioni; i professori che spiegavano i poemi omerici portavano un bastone rosso, segno di autorità e sapienza. Ma il rosso è essenzialmente il colore degli eroi e del sole, quel sole la cui forza, passata al bastone, si riversa poi sull’eroe solare che se ne fa un’invincibile arma. 49 Il Diàntene si riferisce al tempio di Giove Appennino, che, in epoca romana, sorgeva presso l’attuale Scheggia. 50 «Drento, ’ni casa de ciascun paese, la grotta pareva de Sant’Agnese, ma gente ce viveva assai cortese.» = ‘L’interno delle abitazioni di ciascun paese somigliava all’aspetto, squallido, umido ed annerito dal fumo, che mostra la grotta di Sant’Agnese, aprentesi, sul monte Ingino, nella zona immediatamente sovrastante Gubbio. Molti contadini del territorio eugubino, per descrivere l’aspetto fatiscente ed affumicato di un casa che fosse più simile ad un tugurio che ad un’abitazione civile, impiegavano l’espressione metaforica: «Pare la grotta de Sant’Agnese!». 51 «Lìsole» = antico nome di Isola Fossara, usato ancora nelle parlate più conservative. 52 «Hon» = ‘hanno’. 53 Il “Maggio” di Isola Fossara è una sorta di “albero della cuccagna”, di probabile origine pagano-celtica, legato ai riti propiziatori del ciclico, primaverile rinascere della vita vegetale. Il Diàntene svela l’origine del suo nome, che non deriva, come molti sostengono, dal mese omonimo, ma dal comparativo latino major, ‘più grande, più alto’, poiché il palo del Maggio deve essere molto alto e, preferibilmente, più alto rispetto alla maggior parte degli altri alberi di faggio che si incontrano nella faggeta dove esso viene tagliato. 54 La presenza del Pioppo (Populus sp.) nella nostra montagna è alquanto sporadica e localizzata. Un nucleo di Pioppi trèmuli (Populus tremula) vegeta nei pressi del monte Nìccolo, all’interno di una faggeta, in località Le Fontacce. Qualche Pioppo nero (Populus nigra) alligna nei pressi della Valle delle Prigioni. La sua presenza è all’origine del microtoponimo I Bedólli, che qui si riscontra. Nel versante marchigiano della montagna, il termine dialettale “bedóllo”, indica il comune Pioppo nero. Ad oriente di Villa Scirca, vi è la località Il Pioppo, che prende il nome da un grande esemplare di quest’albero che pare esser nato da una delle tante talee, utilizzate per legare le fascine in seguito al taglio del bosco. Nelle zone nordorientali del Parco di Monte Cucco, il termine dialettale bedóllo sostituisce, come detto, quello di pioppo. Ed è proprio un bedóllo ad essere piantato e utilizzato come una sorta di “albero di maggio” alla nascita di un figlio maschio. Questo rito, di probabile origine arcaica, si rinnova ancora, seppur sempre più raramente, nei pressi di Isola Fossara, Coldipèccio, Pascelupo, Perticano, San Felice e Piaggia Secca. L’albero, diritto e scortecciato, è coronato d’un festone di bosso (“le rame del vèrde”), simbolo d’immortalità, e, dunque, auspicio di lunga vita al neonato. Il termine bedóllo è una chiara derivazione del latino di origine gallica betulla, ‘betulla’. Non si può escludere che, nelle zone citate, soggette un tempo alla dominazione dei Galli Sènoni, il termine in questione sia giunto direttamente tramite essi, senza la mediazione della lingua latina. Ciò lo deduco dal fatto che la betulla era utilizzata presso i Galli per simili riti propiziatori e dalla constatazione che il termine dialettale non è più riscontrabile nei versanti occidentali del nostro Appennino, dove, molto probabilmente, i Galli non giunsero. Fu forse la vaga similitudine tra la betulla ed il pioppo a far sì che la denominazione della prima essenza passasse quasi inalterata a designare la seconda. La betulla, d’altronde, anche se certamente esisteva in maniera relitta sui nostri monti, era sicuramente assai più rarefatta del comune pioppo. L’ultima Betulla pendula (Betula pendula) del Monte Cucco fu segnalata dal botanico Paolucci (1890). Cfr. BALLELLI, S., BIONDI, E., Aspetti floristici e vegetazionali della valle dell’eremo di Monte Cucco, in AA.VV., L’eremo..., op.cit., p.40. Nel settore marchigiano del massiccio del Monte Cucco (ed anche ad Isola Fossara), per celebrare festosamente la nascita di una bambina si tagliava un albero di salice, non molto alto e spesso storto (che, a volte, si denominava “stròcchio”: aggettivo costituente una possibile forma metatetica del latino arcaico *torctos, ‘torto’, con la seriore aggiunta di un s- intensivo), ma dalla chioma ramosa, gli si mozzavano le estremità dei rami, e, dopo averlo piantato nelle immediate vicinanze dell’abitazione della neonata, lo si infiocchettava di pezzi di stoffa di colore rosa. Era bene che l’albero fosse buzzo, ovverosia ‘cavo’, e, questo, per propiziare la fecondità futura della bambina, perché, probabilmente, la donna vera dev’essere naturalmente capace di dare ricetto ai figli nel proprio concavo ventre. Secondo alcuni l’uso del salice, associato alla nascita d’una bambina, simboleggerebbe l’aspirazione a che la futura donna sia forte e flessibile (cioè ‘malleabile’) come lo sono, ad un tempo, i rami della pianta. 55 Secondo un antico detto ironicamente denigratorio (che il Diàntene, amando molto la zona di Chiasèrna sia per la sua antichissima storia, sia per la gran bellezza dei suoi panorami naturali, non condivide affatto, pur riportandolo fedelmente), gli abitanti del paese di Chiasèrna (il cui nome discende da quello della decuvia umbra dei Clavernii, vissuta almeno duemiladuecento anni or sono e ricordata nelle Tabulae Iguvinae) vivrebbero in un luogo buio e stretto alla stregua di una caverna. Colui il quale volesse poi lodare questa località si squalificherebbe immediatamente, poiché si capirebbe subito che qui altro non vi è da lodare che un fossato. Costui potrebbe al massimo dir bene della presenza di qualche buona sorgente, ma non certo di un luogo che vede, a malapena per qualche breve ora, i raggi del sole. Tutti gli abitanti del paese se ne stanno, poi, come rinserrati in questo fossato, che si chiama Bevàno, e pare che gli alti monti di cui sono circondati, vale a dire il Catria e l’Acuto, stiano sempre sul punto di crollare loro addosso. 56 «O Chiasèrna, tu sai da’ sempre la guèrna, da i viandanti, essèndojje taverna,’nte la notte del pecàto sai lucèrna, ’nte la fede, salda salicèrna!» = ‘O Chiasèrna, tu fornisci sempre il sostentamento (“guèrna”, s.f., è, letteralmente, ‘il pasto che si dà alle vacche’) ai viandanti che passano per la tua strada (Chiasèrna rappresenta un antichissimo “centro di strada”), poiché sei, per loro, come una buona taverna, nelle tenebre del peccato, poi, sei come una luce, giacché sei radicata nella fede, come una salicòrnia (“salicèrna”, s.f.) lo è sulle sabbie di una spiaggia marina, sempre esposte all’erosione operata dagli incessanti flutti. Chiasèrna ha, infatti, rappresentato, fin dalle sue più remote origini, un luogo sacro, prima per i popoli pagani degli Umbri e dei Romani, poi per i Cristiani, i quali, nell’Ara di San Maffeo o Matteo, vollero fondare un eremo, e, non distante da lì, forse sin dall’alto Medioevo, come testimonia l’arcaica tecnica costruttiva della superstite cripta, un’abbazia benedettina, consacrata all’Arcangelo San Michele, che, in altri sei luoghi della Diocesi eugubina, intitolati al suo sacro nome (avendo già sconfitto il dragone infernale in battaglia), poté garantire anche la difesa dell’estremo confine orientale della Diocesi di Gubbio da molti e differenti mali e pericoli. Il Diàntene, dopo aver riportato, quasi “per dovere di cronaca”, alcune malevole dicerie su Chiasèrna, ora esprime la sua più convinta ed intima opinione circa l’autentica essenza positiva, anzi sacrale, del paese pedeappenninico. 57 «Valdurbìa» = ‘forma orale popolare del toponimo Valdorbìa’. 58 «Olinfante» = ‘olifante’. 59A Valdorbìa, secondo un’antichissima tradizione orale popolare, Orlando avrebbe combattuto una vittoriosa battaglia contro un popolo barbaro e pagano. Da quest’evento, che avrebbe sancito il definitivo prevalere della Cristianità sul paganesimo, avrebbe preso il nome di “Corno (di Catria)” una delle cime rocciose acuminate della montagna, a ricordo del corno suonato in extremis da Orlando a Roncisvalle. Secondo i “Pontanari”, vale a dire gli abitanti di Ponte Calcara di Scheggia, a suonare il corno per chiamare a raccolta un esercito di popolo, con il quale sconfiggere gli aggressori della fiorente e pacifica città di Lucèoli, fu, nientemeno, che l’Imperatore Federico I° Barbarossa. Secondo un’antichissima e radicata tradizione orale popolare, il santo vescovo di Gubbio Ubaldo Baldassini avrebbe fatto costruire, ai confini della Diocesi eugubina, sette chiese dedicate a San Michele Arcangelo, affinché Questi la difendesse dal maligno e dalle aggressioni militari esterne. Una di queste chiese sorge tuttora a Coldipèccio, confine orientale del territorio diocesano, in area prossima alla provincia d’Ancona. Arcangelo. Consultando i documenti, pazientemente raccolti dallo storico eugubino Piero Luigi Menichetti, apprendiamo che, in pieno Medioevo, nel castello di Monte Pesco, o, forse, nella sua curia, vi era una chiesa dedicata all’arcangelo San Michele. Ora, come detto, una chiesa intitolata a questo arcangelo, prediletto dai guerreschi Langobardi, esiste tuttora nel paese di Coldipèccio, la cui tradizione orale popolare vuole essere stata fondata come segno tangibile di riconoscenza per il conseguimento di un’enigmatica vittoria militare da parte di un’altrettanto misteriosa popolazione antica. 60 «’Sto lòco, ppo’, comme me disse ’nn’òmo, i vecchi nostri ’l nomàveno Còmo» = ‘Questo, luogo del Corno, inoltre, stando a quanto mi disse un uomo di Valdorbìa, i nostri vecchi d’un tempo lo conoscevano anche con il nome di Còmo’. In séguito ad una mia recente indagine sulla toponomastica del Parco di Monte Cucco, che ha costituito l’oggetto della mia seconda tesi di laurea, ho rilevato un singolare toponimo di fonte orale: Val de Còmo. Esso designa alcune pendici rupestri della Gola del Corno di Catria. La forma toponimica Còmo, notoriamente designante l’omonima città lombarda, che si vuole essere stata fondata da popolazioni di stirpe celtica, dovrebbe risalire ad un gallico *camb-, ‘piegato’, o al latino cumba/comba, ‘valle, cavità’. Sebbene l’area compresa tra il Cucco ed il Catria dovette, assai verosimilmente, essere colonizzata dai Galli Sènoni, ritengo più probabile far risalire il toponimo in questione alla citata forma latina, che, nel caso specifico, doveva denominare la valle formata dalla stessa gola calcarea. L’antichità del toponimo Còmo è attestata da una carta del Ducato di Urbino. In essa, il nome locale, designando la medesima area del Corno, compare sotto la forma Il Còmo. 61 Colui che loda Valdorbìa altro non loda se non un’importante via di comunicazione (un trivio ed il diverticolo montano (anticamente detto anche Via di Gubbio) Valdorbìa-Antro dei Briganti-Isola Fossara-Fonte Avellana, che risulta tuttora percorribile. La strada che costeggia il Torrente Sentino, detta oggi Strada Statale “Arceviese”, collegava anticamente il Municipio di Iguvium alla città di Sentinum), utilizzata quale luogo di transito da un gran numero di pellegrini (il nome di una cavità naturale, soprastante Valdorbìa, Grotta del Pellegrino, ricorda ancora l’intenso passaggio di viandanti in questa zona). Questi intende poi lodare la presenza di un antico eremo (ricordato dai toponimi Eremo, con il quale era denominata un tempo Valdorbìa Bassa, Prati Romìto e La Romìta), della chiesa dedicata alla “Vergine Lauretana” (che probabilmente sorse sulle rovine dell’antichissima chiesa di San Lorenzo di Valdorbìa, che estendeva i suoi vasti possedimenti fondiari su gran parte della valle del Torrente Bevàno e sull’intera valle del Torrente delle Gorghe) e di un ospizio per i viandanti (ricordato dal toponimo Campo de L’Ospedale). 62 «Matriàli» = ‘di dimensioni ragguardevoli’. 63 ‘Dappertutto’. 64 «L’ultim’orso, che toquìne è nato, tra Segillo e Fossato fu ’mazzato. Era l’anno milletrecentootto, quanno che ’st’orso fece de sangue ’n fiòtto: de Perugia, furon cacciatori, questo grand’orso, fieri, a fare fòri. L’orso del Cucco, ch’era grande assai, da quel di’ ’n poi non s’arvide mai.» = ‘L’ultimo orso che fosse nato in questi luoghi (“toquìne” = letteralmente: ‘qui’) fu ucciso sulle montagne comprese tra Fossato di Vico e Sigillo. Quando quest’orso esalò l’ultimo respiro (“fece de sangue ’n fiòtto” = letteralmente: ‘emise sangue dalle grandi fauci, a causa della ferita infertagli dai cacciatori’) correva l’anno 1308: ad ucciderlo (“fare fòri” = locuzione volutamente assonanzata con “fare fóri”: praticare dei buchi sul corpo dell’animale con lance ed altre armi bianche) furono, con orgogliosa soddisfazione, alcuni cacciatori perugini. Quest’orso bruno (Ursus arctos), che viveva sulle montagne del massiccio del Monte Cucco, e che era di taglia assai grande, da quel giorno in poi si estinse completamente’. Ciò lo si apprende dall’opera di Alessandro Alfieri, Memorie storiche di Fossato di Vico (Roma, 1900, p.18), nella quale, l’autore, dicendo di Fossato medioevale che era «Appoggiato agli Appennini, allora tanto boscosi da ricovrare la più grossa selvaggina» cita, nella nota numero 3 (tratta dal Diario di Antonio dei Veghi, a sua volta contenuto in “Fabretti, Cronache della città di Perugia”, Torino, 1887, vol. I, p.192), la circostanza dell’uccisione di uno degli ultimi orsi bruni delle nostre zone: «Fu fatta una caccia nelle montagne di Fossato e di Sigillo e ci fu ammazzato un orso, e fu misurata la sua schiena e fu otto piedi longa». Tale orso fu, dunque, ucciso, da cacciatori perugini, in un luogo imprecisato, compreso tra la montagna fossatana e quella sigillana, nel 1308. Nel documento, come si è visto, si parla anche, e dettagliatamente, delle grandi dimensioni del plantigrado, che raggiungeva una lunghezza di ben 2 metri e mezzo circa, dimensione massima raggiungibile dalla specie. 65 «Dritto» = ‘moralmente retto’. 66 «Eure» = ‘pronuncia errata del nome Euro’. 67 «’Tisto» = ‘cotesto, codesto’ (anticamente: *(co)tisto?). 68 «Tristo» = ‘cattivo, malvagio’. 69 «Èvero o Lèurolo» = altri nomi di questo Euro. Varianti fonetiche e morfologiche o nomi inautentici, erroneamente compresi e pronunciati o nomignoli d’infanzia. Il nome Euro è proprio della mitologia greca, e rappresenta la denominazione dell’incarnazione del vento di sudest, cioè del benefico scirocco, apportatore di abbondanti e, spesso, provvidenziali piogge. 70 «Paciènte» = ‘paziente, pacifico’. Il termine rappresenta, probabilmente, un incrocio linguistico tra gli aggettivi pacióso e paziente. 71 «Manzo» = ‘mansueto’. 72 «Da se’ ch’è nato» = ‘dal giorno in cui è nato’. 73 «frégo» = ‘ragazzo’. 74 «Perché da tutti quanti ha rispettato » = ‘perché ha rispettato tutti. 75 «Arnùto» = ‘ritornato’. 76 Il consiglio dato dal Diàntene, che è rivolto a tutti gli uomini moderni, vuole invitarli a cambiare rapidamente vita, poiché, quelli che essi stanno consumando con tranquilla noncuranza, sono gli ultimi frutti che la Natura, troppo lungamente violentata, potrà loro concedere. Le rime sono liberamente tratte da un antico adagio popolare, registrato a Fiume, frazione di Scheggia: «Magnate le nespole e piagnéte, perch’ è l’ultimo frutto de l’estate…». 77 «Tutto […] è creato col fine» = Antico adagio tramandatoci dalla saggezza popolare: ‘ogni cosa creata porta scritto in sé il giorno della propria fine’. Notare il genere maschile del sostantivo ‘fine’. 78 «Cantone» = durante il governo napoleonico, Costacciaro era, dal punto di vista politico-amministrativo, un Cantone di Gubbio. 79 «Cantuccio» = variante popolare di Cantone, indicante anche l’annosa marginalità storica ed economica dell’area del Parco di Monte Cucco. Il Diàntene profetizzando l’imminente fine («finazione», nel dialetto arcaico) del mondo, vede la scena già in atto davanti ai propri occhi (si noti, infatti, il brusco passaggio dal futuro al presente indicativo). 80 «Quanno del mondo verrà ’l grande gastìgo, beati quelli da Schiggia al Fosso Rigo» = ‘quando il grande castigo di Dio giungerà a colpire il mondo, beati coloro i quali si troveranno ad abitare tra Scheggia ed il Fosso Rigo, vale a dire tra Scheggia e Fossato di Vico (il Fosso Rigo è quel torrente che lambisce il fianco settentrionale del colle di Fossato). 81 «’L dio ritondo, ch’arimbàlta, ch’arimbàlta tutto ’l mondo» = ‘il dio rotondo, vale a dire la moneta, il danaro, stravolge e ribalta tutti i valori ed i principi etici su cui era fondato il mondo contadino d’un tempo’ (solidarietà, fratellanza, amicizia, generosità, ospitalità), sostituendo ad essi l’egoismo, l’invidia, l’inimicizia, la tirchieria, ecc.). 82 ‘Il sangue scorre sulle strade come fosse acqua piovana e ricade sulla testa di tutti quanti, giusti o peccatori che siano’. Il Diàntene fa proprie talune profezie popolari. Basate sulla lettura di alcuni antichi libri di argomento incerto, esse vogliono che il «Cantuccio (o Cantone) di Gubbio», genericamente identificabile con i Comuni pedemontani di Scheggia, Costacciaro, Sigillo e Fossato di Vico, sarà l’unica zona a salvarsi da un misterioso quanto rovinoso cataclisma geologico, che giungerà a distruggere gran parte della terra. 83 ‘Il grande terremoto esaurirà tutta la propria energia all’interno della Grotta di Monte Cucco (un’antica credenza, radicata nei paesi pedeappenninici del massiccio del Monte Cucco, vuole che i terremoti che, periodicamente, interessano quest’area vengano alquanto attenuati nella loro intensità dalle grotte che permeano le viscere del Cucco. Queste profonde e vaste cavità, infatti, avrebbero la peculiarità di far “sfogare” al loro interno le onde sismiche che le attraversano.) e l’alluvione («’l pinaróne», cioè una sorta di secondo diluvio universale) non giungerà che a lambire queste zone, cosicché le loro popolazioni si salveranno dall’annegamento’. 84 «Beati quelli che, quela matìna, staranno sott’a la mela conventina. Felici quelli, in quela matìna, tolà do’ fa la mela conventina.» = ‘Coloro i quali, la mattina in cui si verificherà la fine del mondo, verranno a trovarsi sotto l’ombra protettrice del melo conventino, tanto frequente in quest’area da esserne assurto quasi a simbolo («[…] Tolà do’ fa la mela conventina» = ‘Là dove alligna la mela conventina’, cioè Gubbio ed il suo Cantuccio), saranno beati, poiché avranno salva la vita e l’anima loro. 85 «Quanno del mondo verrà la finazione: de Gubbio, tutti, ristate ’nte ’l Cantone!» = ‘Quando verrà la fine del mondo, rimanete tutti a vivere nel Cantone di Gubbio!’. Il Diàntene lancia il suo ultimo accorato appello agli uomini, affinché restino («Ristate» = ‘restate’) là dove affondano più saldamente le proprie radici, cioè sulla terra dei propri padri, rimanendo nella quale sopravviveranno ad ogni sconvolgimento morale e a tutti i cataclismi materiali, con i quali l’umanità giungerà a dare il “colpo di grazia” all’intero pianeta. 86 «Si del bene vòi fare tu a ’nn’amico: latte de capra e legno de fico!» = ‘Se si vuol trattare veramente bene un amico, occorre servirlo, offrendogli latte di capra (il miglior latte che ci sia) e legno di fico (il peggiore legno come resistenza ed utilità pratica, ma, in assoluto, il migliore per tenere lontano l’influsso malefico delle streghe, specie quando, con esso, sia confezionata una piccola forca, dalle punte (“còrni”, s.m. pl.) acuminate. Si ricordi come, nella nostra cultura popolare, il fico sia considerato “la pianta dal latte”, vale a dire ‘l’albero che secerne il latte’. Si attribuiva, dunque, un’importante valenza magica a quest’albero, che pareva essere fecondo, come una donna gravida, cui venga il latte (si ricordi anche il mito latino, relativo alla fondazione di Roma, del ficus ruminalis, e alle foglie di fico, con le quali Adamo ed Eva si sarebbero coperti le pudenda. Il lattice del fico era impiegato, in maniera pratica, per far cagliare il formaggio e per provocare una maggiore turgidezza al glande maschile. 87 «’itto» = frequente forma aferetica del participio passato dialettale ditto, ‘detto’. 88 «Que famo? le battémo o le grullàmo?» = ‘cosa facciamo? le battiamo col palo (sottinteso: ‘le noci’) o scuotiamo la loro pianta a forza di braccia, provocandone la caduta?’. Tale espressione, tipicamente popolare, esprime estrema incertezza sul da farsi intorno ad una determinata cosa. 89 Di una donna pettegola e ciarliera si dice spesso che scòccoda (3a persona singolare dell’indicativo presente del verbo intransitivo scoccoda’,’fare coccodè’), cioè che fa il verso, considerato sciocco e perfettamente inutile, delle galline. 90 L’intervento di San Paolo per scongiurare la presenza del “serpe”, e, dunque, metaforicamente, anche quella del demonio, era, un tempo, invocato anche in seno alla multiforme e ricchissima cultura popolare napoletana. 91 «La cosa lunga, serpe è doventàta: si ’l fòco càlla, adìo da la pappàta. “Per san Pietro, e per santo Paolo, serpe tutte, e tizzo, gite al diavolo!”. Su, forza, dàtije, zompàmolo ’sto fòco, ché luce, lu’ farà, ancora per poco.» = ‘La nostra conversazione è ormai diventata troppo lunga, e sterile, come lo è un serpente: se il fuoco cala, dovremo dire addio alla mangiata (poiché il cibo non riuscirà a cuocersi completamente). In nome dei santi Pietro e Paolo, per la distanza raggiunta da questo tizzone, che lancio lontano, ci stiano alla larga tutte le serpi e le persone maligne e pettegole che ci contornano e che se ne vadano definitivamente all’inferno. Su, coraggio, dategli sotto, saltiamo questo focolare, divenuto ormai basso, poiché esso non ci regalerà ancora la luce che per poco tempo!’. Il Diàntene parla, come al solito, in maniera metaforica, e attingendo alla tradizione orale popolare e ad antiche credenze e pratiche religiose e scaramantiche. La prima, consistente nel gettare lontano un tizzone di fuoco ormai divenuto un freddo carbone, veniva praticata, il giorno di San Giuseppe (19 di marzo), in occasione del rituale “focaràccio”. Il tizzone era gettato il più lontano possibile, accompagnando il gesto con la seguente formula d’esorcismo: «Per san Pietro e per san Paolo, tutte le serpe gite al diavolo!». In virtù del potere di questo “scongiuro”, tutti i serpenti, (compresi quelli “a due gambe”, cioè gli uomini), si sarebbero mantenuti, rispetto all’uomo che compiva il gesto simbolico, alla massima distanza, raggiunta dal tizzone lanciato. In seguito, specie i giovani, più baldanzosi, si sfidavano, vicendevolmente, a saltare il fuoco, prima che questo avesse a spegnersi. Il Diàntene, tuttavia, con queste parole, va al di là della metafora, e vuole lanciare un preciso messaggio a tutti gli uomini ragionevoli: «Smettete di parlare in maniera vacua e malignamente gli uni degli altri (le serpi simboleggiano, specie nei sogni i discorsi malevoli e i pettegolezzi) e non lasciate che il fuoco dell’amore e della fratellanza giunga a spegnersi nei vostri cuori, altrimenti non sarà più possibile mangiare insieme, (cioè convivere pacificamente). Saltate ora (cioè superate le ceneri ed i carboni prodotti dal fuoco edace delle vostre passioni smodate), e tornate a quella fraternità e solidarietà di cui vi nutrivate un tempo!’. 92 «“Magna e fatte grosso, pia mójje e zómpije adòsso”» (antico detto popolare): ‘mangia e cresci (si ricordi che l’intervistatore è un ragazzo di giovane età), sposati e fai l’amore!’. 93 «Magna, arlòtta, e, ppo’, scuréggia, dàjje giù comme ’na tréggia!» (il Diàntene mostra qui la sua parte più triviale e carnale) = ‘Mangia, rutta, e, poi, spetazza, fai l’amore a più non posso!’. 94 «Garétti» = letteralmente ‘tibie’, e, per estensione, ‘gambe’. 95 «’Mirate» = ‘ammirate, osservate attentamente e con forte attrazione’. 96 «’cétta» = ‘accetta’. 97 «merólla» = ‘duramen del tronco di quercia’. 98 «fràido» = ‘fradicio, disfatto’. 99 «bigarèllo» = ‘fattura, malocchio’. Una piccola torta al testo (torta, crèscia), chiamata anch’essa bigarèllo, veniva espressamente preparata con lo scopo di farla mangiare ad un ragazzo od una ragazza, che si volevano fare innamorare di una particolare persona. Il bigarèllo assumeva allora una funzione assimilabile a quella di filtro d’amore. Il termine potrebbe essere derivato dal verbo brigare. Bicarellus era anche un nome personale medioevale, documentato nei carteggi di taluni castelli del comitato eugubino. 100 Tale poesia, mestamente recitata dal Diàntene, trae ispirazione dalla credenza popolare, secondo la quale, nel mese di marzo, le pecore sarebbero particolarmente soggette ad ammalarsi di cimorro e, a causa delle complicanze respiratorie innescate da questa malattia, rischierebbero ogni giorno di morire. Secondo altre interpretazioni, sarebbero invece le pecore nate in marzo, quelle più cagionevoli e a costante rischio di morte. 101 «Cólco» = ‘corico, distendo’. 102 «Non m’arràlzo» = ‘non mi rialzo’. 103 «Si m’amàlo» = ‘se mi ammalo’. 104 «Si me sperdo» = ‘se mi perdo’. 105 «Jje dìcheno pulitica, ma è zozza, ché chi la fa, fratello mio,… s’angózza!» = ‘la chiamano politica, ma è cosa sporca, poiché chi la fa, fratello mio,… pensa solo ad ingozzarsi!’. Il Diàntene gioca qui sull’assonanza tra il termine dialettale pulitica, ‘politica’, e l’aggettivo italiano pulita. 106 «birbìzia» = ‘furbizia’. 107 «birbèdine» = ‘astuzia maliziosa e perfida’. 108 «rèdine» = ‘redini’. 109 Il Diàntene, improvvisamente preso da un émpito d’odio e disprezzo verso gli uomini moderni, si sfoga contro il suo incolpevole interlocutore, coprendolo di una sequela d’irripetibili impropèri: «“Te sai breccia, io so’ sasso, te sai birbo, io te passo!”… c’ho ’n biciòccolo de sasso, te c’hai ’n ròccolo de grasso, io de sasso ’l sesso, te ’m pezzo d’alésso!». = ‘Tu sei della consistenza di un granello di ghiaia, io, invece, di quella di un sasso, tu sei furbo, ma io ti supero di gran lunga!’ (antico detto popolare) … io ho un pene (“biciòccolo”, s.m., ‘pene’. Variante morfologica: “pisciàccolo”, risalente la verbo “piscia’”, pisciare) duro come un sasso, tu, invece, ce l’hai della consistenza di un rocchio (“ròccolo”, s.m.) di lardo, io ho il sesso duro come un sasso, tu, invece, molle come un pezzo di carne lessata (“alésso). 110 ‘Ragiona’. 111 «Musi» = forma dispregiativa che sta per ‘facce’. 112 «A guarda’ è mèjjo ’n bel prato fiorito, ch’a véde ’n brutto muso ’rugginìto» = quest’antico proverbio tradizionale può essere così tradotto: ‘È meglio guardare un bel prato in fiore piuttosto che vedersi di fronte il brutto ceffo, scuro in volto («muso rugginìto», vale a dire ‘color ruggine’, cioè ‘scuro’), di un uomo ignorante, prepotente e violento’. 113 «Mette le ràdiche» = ‘mettere radici, stabilirsi in un luogo’. 114 Róppe = rara variante fonetica assimilata della voce verbale italiana ‘rompe’. 115 «Stólla» = voce derivata dal verbo popolare stolla’, ‘spezzare (un ramo) alla base’. 116 «Zozzerìa» = ‘sudiciume’. 117 Presente, qui, in un antico adagio popolare, il sostantivo femminile ppèsta, la cui doppia -p- iniziale rappresenta un fenomeno di raddoppiamento intensivo ed enfatico, indica un fetore pestifero, insopportabile. Il termine dovrebbe derivare da pesta, antico nome, “normalizzato”, della peste. 118 «[…] Toquì è tutta ’na zénna, cocchi!» = ‘su questa terra è un grande disastro’. Il raro sostantivo femminile dialettale zénna risale a geènna, ‘fuoco infernale, inferno’. 119 ‘Sorta di bastone d’aspetto contorto’. 120 «Sdógo» = voce derivata dal verbo sdoga’, ‘togliere le doghe ad una botte’ e, per estensione, ‘rompere le ossa ad una persona’. 121 Il Diàntene crede che la questione dell’intervistatore sia del tutto oziosa, lunatica e stralunata, perciò, dopo avergli rivolto questa domanda retorica, subito lo spedisce a rendersi maggiormente utile, con l’andare a raccogliere le poche uova, che riescono a fare le galline starnazzanti come lui. 122 «Gubbìni» = etnonimo dialettale con il quale sono generalmente designati, a livello popolare, gli abitanti di Gubbio. Esso deriva dal nome etnico latino medioevale Eugubinus, ‘di Gubbio, relativo a Gubbio’, a sua volta risalente al poleonimo Eugubium, ‘Gubbio’. Ecco la trafila fonetica seguita dal nome etnico originario per giungere sino alla variante morfologica (aferetica) popolare Eugubinus > Eugubino > *Gubìno > Gubbìno. Gli Eugubini furono talora detti anche Gubbiòtti. Tale raro etnonimo popolare si è conservato come cognome e toponimo. 123 Il Diàntene, tenta di sfogare il suo rancore, lungamente covato per le ingiustizie subìte, “affibbiando” molti epiteti negativi, un tempo realmente attribuiti agli abitanti dei centri abitati del Parco di Monte Cucco e a quelli dei vicini territori di Gualdo Tadino e di Nocera Umbra: «Tutti matti ènn’i Gubbìni»: è assai noto quest’attributo legato agli abitanti di Gubbio, i quali, nella settimana dei Ceri, si abbandonano a comportamenti rituali, considerati a dir poco incomprensibili, se non addirittura folli, da molti osservatori esterni, non calati nel contesto storico-antropologico della splendida festa tradizionale; «Nobilòmini a Cantiana»: ‘nobili di Cantiano’ (Cantiana, insieme a Canziano, costituisce una variante antica del poleonimo Cantiano). Secondo un’inveterata tradizione orale popolare, la parte più aristocratica di quelle genti che erano miracolosamente sfuggite alla distruzione della Città di Luceoli, dopo aver vissuto, per un certo tempo, in un piccolo bosco sacro (in latino luceolus, da cui Luceoli), che faceva da contorno al tempio di Giove Appennino, decise di fondare un nuovo centro abitato sul sito geografico in cui, secoli più tardi, sarà costruito il borgo di Cantiano. La parte meno nobile di queste popolazioni sarebbe invece andata a fondare il centro altomedioevale di Scheggia. «Borsaròli de la Schiggia». «A La Schiggia véndece, ma ’n ce compra’!», diceva un vecchio detto popolare, perché gli “Scheggianti” facevano una grande fiera agricola annuale, dedicandosi, assiduamente, al commercio, nel quale settore, eccellendo, potevano parere, a taluni, di dubbia onestà; «Lumacàri de La Costa»: perché i “Costanti” avrebbero incrementato la loro economia di sopravvivenza, attraverso la raccolta e la vendita delle lumache e delle fragoline di monte (Fragaria vesca); «Greci o Grèggi de La Villa»: forse da Greci (detti in antico italiano, e dialettalmente, anche Grègi), come sinonimo di Greco-bizantini, in quanto il paese dovrebbe avere subìto, nell’Alto Medioevo, la diretta dominazione dei Bizantini, che si manifesterebbe, ancora oggi, nel secolare culto di venerazione tributato a Sant’Apollinare, Vescovo di Ravenna. Certuni fanno, tuttavia, risalire la variante Grèggi (nota solo a pochi) al fatto che i Villanti avevano molte pecore, o, fors’anche, prendendo per buona un’interpretazione errata di quest’ultimo epiteto, a gréggi, nel senso di ‘grezzi, rozzi’. Alcuni vogliono, infine, che l’attributo Grèggi non sia di natura dispregiativa, ma, al contrario, derivi, semplicemente, dall’aggettivo egregi; «Guèrci e gobbi a Costaciàro»: perché a Costacciaro avrebbero l’abitudine di “guardare storto” (il termine guercio deriva dal gotico thwaírhs, ‘[che guarda] storto’, ‘iroso’) le persone forestiere. L’epiteto di gobbi, attribuito, un tempo, ai Costacciaroli, avrebbe la seguente origine. Si narra che un mago, giunto a Costacciaro per tenervi uno spettacolo d’illusionismo, entrasse in un’osteria, e, ivi, notasse la presenza di un uomo basso, magro e gobbo. Uscito dall’anzidetta osteria, ebbe, per sue impellenti necessità, subito ad entrare in una seconda bettola; qui, con gran stupore, vide un secondo uomo, in tutto e per tutto somigliante al primo, tanto che il mago pensò che si trattasse della stessa persona. Sortito anche da questa seconda osteria, volle immediatamente mettere piede in un terzo locale, che esisteva nel paese. Meraviglia delle meraviglie, anche qui osservò un uomo dalle fattezze estremamente simili a quelle dei due gobbetti incontrati nelle precedenti occasioni, e, anche in questo caso, credette di trovarsi in presenza della medesima persona, magicamente fattasi in tre con un inusitato dono della “trilocazione”. A questo punto, il mago fu preso da sconforto, e, credendo i Costacciaroli molto più abili di lui nella magia, rinunziò a tenere il suo progettato spettacolo “nel paese dei magici, gobbetti con il dono dell’ubiquità”. Qualcuno, molto più prosaicamente, spiega l’attributo di gobbi con la reale, ed un tempo assai diffusa, presenza di questa malformazione fra la popolazione del borgo pedeappenninico, la quale avrebbe avuto una causa genetica, imputabile ai frequentissimi matrimoni fra consanguinei. «Zìngheri ènn’i Sigillani». Di Sigillo si diceva che era divenuto “’na zingheràia”, cioè ‘un campo nomade di zingari’, perché il centro ebbe un grande incremento demografico in seguito all’abbandono delle campagne da parte dei contadini, notoriamente costretti a vivere una vita errabonda ed itinerante; il modo di vivere dei Sigillani, molto meno stanziale di quello delle altre popolazioni vicine, concorse a rafforzare ancor di più questo concetto di “girandolonerìa”, s.f., ovverosia di ‘cattivo nomadismo’. «Cavaciòcchi del Purello»: poiché i Purellani avrebbero avuto un’economia silvo-pastorale di mera sussistenza, spesso legata alla pratica “dell’ arcavatura del ranco”. Fattosi agricoltore, l’uomo appenninico tentò, infatti, di spingere verso l’alto le sue prime forme colturali. Nacquero così i primi ranchi e le prime cèse, ‘porzioni di terra coltivabile strappata al bosco col taglio, l’incendio e l’estrazione di ceppaie e radici’. La pratica di ricavare ranchi da aree un tempo ricoperte dal bosco è perdurata sino a pochi decenni or sono. Il nostro dialetto conserva ancora un’espressione chiaramente alludente a quest’attività agricola di sopravvivenza: “Arcavà ’l ranco”. La località montana più conosciuta con questo nome è Il Ranco o Val di Ranco di Sigillo. Assai frequentata dal turismo, vi sorge un villaggio, che è annoverato fra le frazioni di Sigillo; «Grattasàssi èn su ’n Fossato»: il significato dell’epiteto si capisce bene, pensando come il sito topografico d’altura su cui sorge Fossato sia costituito da rocce e terreni brecciosi, caratteristiche geologiche e pedologiche che rendevano assai difficile la vita delle popolazioni contadine, costrette letteralmente a “grattare i sassi con zappe ed aratri”. 124 «Zoccaróni a Colbassano»: forse perché portavano, o fabbricavano, gli “zoccaróni, s.m. pl., ossia ‘zoccoli da uomo di legno di salice’; 125 «Lumacàri al Palazzolo»: così chiamati, per le stesse ragioni degli abitanti di Costa San Savino; 126 Ai Gualdesi fu attribuito anche l’epiteto dispregiativo, assimilabile al precedente quanto a significato, di “pancottàri”, cioè ‘mangiatori di pancotto’. 127 «Pulentóni quei de Gualdo»: per il loro presunto modo “impastato” di parlare, come se stessero mangiando la polenta bollente; 128 «Tutti Prèti su ’n Nocèra»: Nocera Umbra è sempre stata una città dalle spiccate vocazioni ecclesiastiche per la presenza di un seminario, di molte chiese, e per essere stata sede vescovile. A Gualdo Tadino, in riferimento ai Nocerini, si impiegava un diverso epiteto: «Bussettàri de Nocera». Il termine Bussettàri dovrebbe essere indicativo d’un mestiere, anticamente molto esercitato dai Nocerini, quello dei calzolai. Il bussétto, s.m., era, infatti, ‘un arnese di bossolo con il quale i calzolai lucidavano il taglio delle suole o dei tacchi delle calzature’. 129 «Màrri quei di là dal monte»: tutti gli abitanti del versante orientale del massiccio di Monte Cucco erano genericamente definiti “marri”, vale a dire ‘portatori di róncola’ (“màrro”, “marràccio”, nelle parlate dialettali locali), principale strumento, e, quasi, simbolo dei mestieri che principalmente svolgevano, che erano quelli del boscaiolo e del carbonaio. Con una certa esagerazione, si arrivava a dire che queste genti portassero sempre ed ovunque la róncola appesa al fianco, non separandosene nemmeno al momento di coricarsi. Un proverbio esemplifica bene quest’inveterata abitudine: “’L marro ’n va siguro se non porta ’l marro al culo”. 130 Il Diàntene sta parafrasando il noto proverbio popolare “Le cèrque ’n fòn le meràngole”, che, alla lettera, vale a dire: “Le querce non fanno le arance”. Quest’antico adagio dialettale era un tempo impiegato con particolare riferimento a persone stupide, le quali, secondo la loro natura di “minus habens”, compivano azioni sciocche e maldestre. 131 «’N s’arindrìzza affatto» = ‘non si raddrizza per niente, non si può più, neanche minimamente, raddrizzare’. L’uomo cresciuto con molte storture morali è, dunque, secondo il lapidario giudizio del Diàntene, del tutto irrecuperabile. 132 «Cèrqua più grossa, che mai nn ha fatto ghianda […]» = ‘La più grande quercia sterile, che, cioè, non ha dato mai alcun frutto’. 133 Un contadino, interrogato sul luogo dove si sarebbero potute trovare le querce più grandi del mondo, rispose, in maniera estremamente acuta ed ironica: “Le cèrque più grosse e matriàle créscheno do’ se comanda”, cioè, fuor di metafora: “Le persone più grossolane, sciocche e maleducate vivono nei luoghi dove si esercita il potere”. 134 «Zozzàto» = ‘insozzàto’. 135 ‘Burroni’. 136 Secondo un’antichissima leggenda locale, San Girolamo, per sottrarsi alla persecuzione dei sacerdoti romani, che egli avrebbe attaccato per la loro carenza di rettitudine, si rifugiò per qualche tempo in una grotta, aprentesi nei pressi dell’Eremo di Monte Cucco. 137 «Non disturbava mai la gente». L’espressione perifrastica dà pillòtto e la variante sintetica pillotta’ derivano entrambe dal sostantivo maschile pillotto, ‘spiedo’. Il disturbare insistentemente qualcuno viene dunque paragonato al rosolare, a fuoco lento, la carne sullo spiedo. 138 «Santo fino» = ‘Santo insigne’. 139 «Deserto» = ‘solitudine eremitica’. 140 «Lue, tolà, fu, al tutto, morto al mondo, benanche che birava e era ritondo.» = ‘In quel luogo, Lui restò completamente “morto al mondo”, benché quest’ultimo continuasse a ruotare e ad essere sferico. 141 «I miriàcol sua èn tanti» = ‘i suoi miracoli sono in così gran numero’. Notare la forma dialettale miriàcol(i), che sta per ‘miracoli’. Essa è chiaramente incrociata con il tardo latino myrias, -adis, che è dal greco myriàs, -àdos, ‘collettività di diecimila’, che sembra, già di per se stessa, voler indicare la gran quantità di prodigi, operati dal nostro Beato. 142 «Ch’a contàlli» = ‘che a contarli e a raccontarli (cioè ‘a narrarli’)’. 143 Queste ottave sono liberamente tratte da un proverbio popolare e da una lauda sul beato Tomasso Grasselli da Costacciaro, composta, da un anonimo scrittore, tra il XIII ed il XIV secolo. Nato a Costa San Savino nel 1262, il Beato entrò, a soli dieci anni, come novizio nell’abbazia romualdina di Santa Maria Assunta di Sitria, il cui Priore era, allora, un certo Trasimondo o Trasmondo. Divenuto Converso della Congregazione Camaldolese, si ritirò a condurre vita eremitica nei pressi dell’attuale Eremo di Monte Cucco, dove morì santamente nel 1337. 144 «Si da vo’ prego, Tomasso, de siguro, ’n m’ampatàsso: sempre trovo la sortita dal pantano de la vita» = ‘Se io vi prego, o Tomasso, certamente non rimango prigioniero del fango «’n m’ampatàsso»: sempre, infatti, trovo una via d’uscita «la sortita» da quel pantano che chiamano vita’. 145 Nel luogo di confluenza tra il Torrente Sentino ed il Rio Freddo, anticamente detto Fosso Perticaro o Perticano, luogo che, da questa confluenza, prende il significativo nome di Congiùntoli, sorge la chiesa abbaziale di Sant’Emiliano e Bartolomeo Apostolo, costruita tra l’XI ed il XIII secolo. Nei pressi di questo tempio cristiano, sorge una celletta («cellula», in latino: probabilmente il Sacellum Sancti Hieronymi, che si trova attualmente nelle immediate vicinanze dell’Eremo di Monte Cucco), in cui fecero eremitaggio molti santi uomini. Aspetta, se ci penso bene, ricordo che ci stette in preghiera anche San Domenico, detto Loricato (990-1060), a causa del cilizio, a forma di lorìca, che, per penitenza, usava sempre indossare sul nudo petto. San Domenico, detto anche Confessore (sulla cui vita scrisse un’epistola in latino San Pier Damiani), in queste celle passò svariate ore. Per sfuggire alla morte dell’anima, faceva penitenza anche il beato eugubino Forte (970-1040), della nobile famiglia dei Gabrielli. Tuttavia, per andare a vedere il luogo di continua reclusione di questo beato, occorre percorrere una strada completamente diversa e raggiungere il vertice del Monte di Santa Maria. Nel luogo ove sorgeva l’aia di questo romitorio crescono ancora un fico (la forcina, o forca, di legno di fico era, un tempo, considerata strumento idoneo ad affrontare ed allontanare le streghe ed altri esseri malefici) e alcuni giaggioli, ormai inselvatichiti, verosimilmente piantati dal Beato Forte in persona, ben un millennio or sono. 146 Si tratta di un’enigmatica figura femminile della Costacciaro medioevale, che la tradizione orale popolare vuole vivesse, per qualche anno, da eremita sul Monte Cucco, facendo penitenza nella Grotta de Sant’Agnese, che, proprio da lei, avrebbe tratto il nome. A Gubbio, sul Monte Ingino, esiste un’altra Grotta di Sant’Agnese e, sempre a Gubbio, sembra che un’eremita di nome Agnese sia realmente esistita. 147 «’Nteghìta» è participio passato, significante ‘irrigidita’. 148 Ai piedi delle balze della Pìgnola esiste realmente un androne, dedicato a San Donnino, con chiari segni di frequentazione umana antica. 149 Si tratta di una modesta ma asciutta cavità carsica, aprentesi al piede del settore più elevato delle balze della Pìgnola. 150 «Si principia’, tu, vòi ogni sapienza, de Ddio, d’ave’ tu ci hai la temenza!» = il Diàntene sta qui parafrasando il celebre proverbio biblico del re d’Israele Salomone: «Initium sapientiae timor Domini est», ‘Il timore del Signore è il principio della scienza’ (Proverbi 1,7), volendo qui significare che la base fondante d’ogni conoscenza è il rispetto religioso verso i misteri che regolano il Cosmo e l’umiltà, la quale, modesta ma affidabile fiaccola, permette lentamente di farsi largo, senza rischio alcuno di smarrimento, nello spessore delle loro fitte e tenebrose oscurità. 151 «Ammarmi’ » è verbo intransitivo popolare, significante: ‘impietrirsi, pietrificarsi’. 152 «Vulticàta» = forma femminile dell’aggettivo e participio passato (v)ulticàto, derivato dal verbo riflessivo (v)ulticàsse, ‘rotolare vorticosamente’. La forma vulticàto deve, dunque, essere confrontata con l’italiano vorticato. 153 «Spallato» = ‘crollato’. 154 La tradizione orale popolare di Isola Fossara vuole che un grande masso, staccatosi dalle imponenti rupi del Monte Catria sovrastanti il paese, venisse fermato, con la mano destra, da un miracoloso intervento di sant’Antonio. La fantasia popolare, in alcuni confusi segni impressi sul masso, identifica ancor oggi l’impronta della provvidenziale mano di sant’Antonio. Il luogo in cui si trova ora il grande macigno è detto, da epoca imprecisabile, La Valle del Sasso. È possibile che il nome della valle si ricolleghi proprio a quest’antica frana di scoscendimento. 155 «’Nunche» = ‘qualunque’. La forma aferetica ’nunche si è originata, probabilmente, nel seguente modo: qualunque> *quanunque> *nunque> ’nunche. 156 Antica preghiera a sant’Antonio da Padova, tramandata oralmente dagli abitanti di Isola Fossara. 157 «Ad Isola Fossara, si crede che sant’Antonio di Padova, che si festeggia il tredici di giugno, faccia ben tredici grazie al giorno». 158 Secondo un’inveterata tradizione orale popolare di Isola Fossara, la sorgente che scaturisce nei pressi della badia di Sìtria fu fatta miracolosamente scaturire dallo stesso fondatore dell’abbazia, san Romualdo degli Onesti (952-1027), ravennate, istitutore della congregazione benedettina dei Camaldolesi, che gli abitanti di questi luoghi hanno sempre chiamato san Romaldo. 159 La badia di Sìtria, per la sua grande, solenne solitudine e la santità di vita ascetica che vi si conduceva, fu talora paragonata, anche a causa dell’analogia fonica e concettuale, determinata dalle due parole che fanno rima, con Nìtria d’Egitto, dove vissero in perfetta santità migliaia di anacoreti. 160«’Nte la badia che, lu’, t’éva fondato, per ben sett’anni ce fu ’ncarcerato, per ben sett’anni ce fu ’mprigionato, dal monaco Romano calunniato, per ben sett’anni ’nte ’na cripta archiuso, vittima certamente d’un abuso. Ma, per suo mezzo, Dio fece un miracolo, che da tutti chiama’ lo fece oracolo. ’N capesciòtto jje dettero a magnare, drent’a l’òjjo volsuto cucinare, ’nsomma, un pesce, jje décero fritto, purché ristasse sempre bòno e zitto. Ma quisto Romualdo, un bel matìno, lo dà da l’acque fresche de l’Artìno, e, tanto prega Dio, ognun stupisca, che fa che, fritto, lue s’arinvivìsca. I capesciòtti ’nte l’Artìn viventi, da quel dì, in poi, fûro diferenti, coi corpi loro tutti pintichiati: ’nti altri fiumi mai l’honno altrovati!» = ‘Nell’abbazia da Lui stesso fondata, fu incarcerato, per lo spazio di ben sette anni, per ben sette anni vi fu imprigionato, poiché era stato infamantemente calunniato da Romano, uno dei suoi monaci. Fu, infatti, rinchiuso per ben sette anni nella buia ed umida cripta dell’abbazia, quale vittima incolpevole d’un grande abuso. Ma Dio, volendo dimostrare la di Lui innocenza e santità, operò, per Suo mezzo, un grande prodigio, per il quale, da quel giorno in poi, fu trattato come se fosse stato un oracolo. Dàtogli, da parte dei Suoi compagni d’eremitaggio, da mangiare un ghiòzzo («capesciòtto», s.m.), pescato nelle vicine acque del Torrente Artìno, e, poi, volùtolo essi cucinare fritto nell’olio d’oliva, insomma un pesce fritto, affinché non si lagnasse della Sua condizione, rimanendo buono e zitto, come era sempre stato fino ad allora, Romualdo, un bel mattino, lo restituì subito alle fresche acque dell’Artìno, e pregò così intensamente il Signore Iddio, che, ognuno si stupisca a quanto sto per dire, Egli ottenne che, benché fosse fritto, il pesce, al contatto delle vivificanti acque torrentizie, riprendesse istantaneamente vita («s’arinvivìsca», f. verb.). Da quel giorno in poi, i ghiòzzi che vivono nell’Artìno sono di differente specie rispetto a quelli che abitano le acque degli altri fiumi circonvicini, nei quali, questi dell’Artìno, mai sono stati finora trovati. Si presentano, infatti, questi ultimi di un colore diverso e con il corpo completamente ricoperto di macchie («pintichiati», agg. e part. pass.)’. Secondo un’antica credenza di Isola Fossara, i capesciòtti, o capisciòtti (‘ghiòzzi’), dell’Artìno apparterrebbero ad una specie diversa (sarebbero di diverso colore e picchiettati) rispetto a quelli presenti nel Sentino e altrove, e non potrebbero vivere che nel torrente Artìno. Questa differente “razza” di pesci avrebbe fatto la sua comparsa nell’Artìno in séguito al miracolo, operato da san Romualdo, “del pesce fritto rinvistato nelle acque dell’Artìno”. Cfr. sull’argomento: BELLUCCI, G., 1894, a, Leggende umbre. I capesciotti di San Romualdo. La sorgente dell’Artino, “Rivista delle tradizioni popolari italiane, a. I, fasc. XII, pp. 899-900. Secondo Alessandro Borgia, vescovo di Nocera nel 1716, che si recò in visita pastorale all’Abbazia di Sìtria, concessa in feudo dai Duchi d’Urbino ai Conti Odasio (dialettalmente Odàzzio, o, anticamente, anche Odasi e Odaci, forme entrambi plurali) di Isola Fossara, il cenobio prese il nome da quello, antico, del Monte Nocria, già chiamato Notria, e, ancor prima, appunto, Sìtria. Rivus (o Rivulus) Arenti è l’antico nome, tramandatoci da san Pier Damiani (secolo XI) del Torrente Artìno. La forma idrotoponimica Arenti può essere riconnessa con la base idronimica indoeuropea *ar-, che indicava l’acqua, con particolare riguardo a quella in movimento. Ecco la possibile trafila fonetica, attraversata dall’idrotoponimo in esame sino al giorno d’oggi (dalla forma Arenti, cioè, ad Artìno): Arenti > *Arentinus > *Ar(en)tinus > *Artinus > Artìno. 161 «[…] ’n’aquila de sasso […]» = ci si riferisce qui ad una forma d’erosione della Scaglia rosata, tradizionalmente denominata L’Aquila, che i fattori geologici, unitamente agli agenti atmosferici, hanno appunto modellato in forma di aquila dalle ali semiaperte. 162 La Grotta del Masso, presso Villa Scirca, prende il nome da un macigno sospeso, un tempo, in precario equilibrio al di sopra della sua entrata. 163 «Sopre Sigillo c’è ’na balza scura, de le Lecce chiamata Spaccatura; su ppe’ ’n toppetto, de ’sta balza pizzuta, lo strano Orto ce sta de la Cicuta, ch’è ’na pianta velenosa tanto, che, si la magni, t’altrovi al camposanto. Ma, per fortuna, “chi asàggia la cicuta, la ciàncica su ’n bocca e, po’, la sputa”.» = ‘A monte di Sigillo si trova una parete rocciosa di colore scuro, chiamata Spaccatura (o Balza) de le Lecce (a causa della profonda incisione che la divide in due parti e dell’abbondante presenza di lecci, che vegetano abbarbicati alle sue rocce strapiombanti); sulla cima di un poggetto di questa rupe, dal vertice acuminato, si trova lo strano luogo, denominato Orto de la Cicuta, che è una pianta erbacea, la quale, se mangiata, provoca la morte. Ma per fortuna, ‘colui il quale assaggia la cicuta, fa appena in tempo ad iniziare a masticarla che subito la sputa (per il suo gusto amaro). Ma, per disgrazia, chi mangia la cicuta, stai pur sicuro che non la risputa (per la sua grande velenosità)’. Il Diàntene riprende il noto detto popolare «Chi asàggia la cicuta, de siguro la risputa» ed il suo contrario: «Chi se magna la cicuta, de siguro ’n la risputa». Il fitotoponimo popolare Orto de la Cicuta allude, in realtà, alla pianta della ferula (Ferula sp.), particolarmente abbondante in questo luogo e abbastanza somigliante, nell’aspetto esteriore, alla vera e propria cicuta. Entrambe le piante appartengono alla famiglia delle Ombrellifere. 164 «De Sigillo, sul monte, c’èn le Cèse, che così ènno dette, ché venìvon fièse.»: ‘Sulla montagna sigillana ci sono Le Cèse, che sono così chiamate a causa del fatto che le loro macchie venivano periodicamente tagliate («fièse» = ‘tagliate’)’. Il Diàntene fornisce un’errata interpretazione etimologica (“paraetimologia popolare”) del nome di un’importante località montana sigillana, Le Cèse, caratterizzata da uno spettacolare e fiabesco bosco plurisecolare di faggio e carpino bianco, che era un tempo sottoposto al taglio e nelle cui radure venivano seminati alcuni cereali e piantate le patate. Le cèse erano, in effetti, ‘luoghi disboscati, dissodati, e, talvolta, arsi per la messa a coltura’. 165 L’Eremo di San Pietro Ortichéto, benché resti ancora avvolto da una fitta coltre di mistero, sorgeva certamente nella valle del Monte Cucco che ancora porta il suo nome: Valle de San Pietro. 166 Si tratta dell’Eremo di San Girolamo di Monte Cucco, o di Pascelupo, fondato, nel 1521, dal beato Paolo Giustiniani. 167 Probabilmente messer Ghigi Adramando, di Costacciaro, vissuto nel secolo XVI. 168 Forse l’illustre uomo di cultura Lodovico Carbone, anch’egli di Costacciaro, e contemporaneo di Ghigi Adramando, autore di un enciclopedico trattato di diritto, il Tractatus de legibus amplissimus: in quo omnium divinarum, humanarumque legum, hoc est legis universae, aeternae, naturalis, humanae, ecclesiasticae, civilis, municipalis, consuetudinis, & divinae, tum veteris, tum novae, fundamenta, caussae, proprietates, effettusque tratantur … estque questionum divi thomae de legibus & multorum titulorum, praesertim primorum utriusque iuris, commentarius locupletissimus … ludovici carbonis a costacciaro …cum indice disputationum, & rerum notabilium venetiis: apud ioannem guerilium, 1599 (venetiis: apud ioannem guerilium, 1599). 169 «[…] Po’ ce fûr altri […]» = Mutio Flore, 1604; Francesco Santiorgi di Sassoferrato; Conte Prospero della Genga 1667, ecc. 170 Il marchese Tommaso Agostino Benigni, di Fabriano, esplorò la Grotta di Monte Cucco, assieme ad altre tredici persone, nel 1670. 171 Il conte Girolamo Gabrielli, di Gubbio, visitò la Grotta, “con intelletto d’amore”, nel 1720. 172 Questo chiavicotto, di Villa Col de’ Canali, prendeva, un tempo, il nome improprio di ponte, poiché era fornito di spallette e parapetti, sopra i quali i passanti amavano soffermarsi a chiacchierare. Riferendosi ad esso, i bambini di Villa Col de’ Canali recitavano la seguente filastrocca: “Io ’l véggo, ma ’n l’anségno: sott’al Ponte del Ponticéllo!”. Tale sorta di scioglilingua voleva significare ironicamente il fatto che i bambini avevano visto alcune coppiette amoreggiare, di soppiatto, sotto al ponte, o, ancora, che essi avevano assistito all’apparizione d’inquietanti presenze, che si volevano legate alle acque, come il “Lupo Manàro” (‘lupo mannaro’) e la “Géa”. Stando a consimili racconti, unicamente tràditi per via orale, altri periodici avvistamenti del lupo mannaro sarebbero stati fatti sotto presso il ponte del Torrente Rio, che, un tempo chiamato Flumen Rivi Sancti Donati (poiché attraversava la Villa di San Donato, oggi conosciuta con il nome di Caprile), scavalca il corso d’acqua nei pressi del cimitero comunale di Costacciaro. 173 Il verbo popolare urla’, ‘urlare’, riferito al lupo, significa ‘ululare’. 174 La Bestia Cupa è ‘il demonio’. 175 La Bestia Piòta è un essere favoloso, abitatore enigmatico delle grotte di Monte Cucco, concepito dall’immaginazione dell’autore. La locuzione bestia piòta, invece, il cui secondo elemento deriva dall’aggettivo latino plauta, ‘lenta’, ad Isola Fossara, indica realmente ‘un animale domestico lento nei movimenti e, non di rado, di costituzione debole’. 176«Malco»: storicamente è il servitore del Sommo Sacerdote, cui san Pietro tagliò un orecchio con la spada. Per la tradizione di Villa Col de’ Canali, invece, incarna lo spirito stesso del male, e, dunque, rappresenta il demonio. 177 «I Spirti» sono gli ‘spiriti’, specie quelli del male. 178«Dragolétto»: altro nome popolare del diavolo. Ai bambini disubbidienti di Villa Col de’ Canali si diceva, talvolta, «Si nno’ stai bòno, chiamo ’l Dragolétto!», mentre a quelli di Gubbio, in segno d’intimidazione: «Si nno’ stai bòno, chiappo ’l Tragolétto!». In quest’ultimo caso, con il dialettalismo lessicale Tragolétto ci si riferiva piuttosto ad un lungo e rozzo bastone, ad un’estremità del quale era fissata una tavoletta a forma di mezzaluna, utilizzato per ripulire il forno dai carboni spenti. Era dunque un arnese che aveva a che fare con il fuoco ed il carbone, due elementi, che, simbolicamente, con il forno stesso, si riferiscono spesso all’inferno. La forma linguistica Tragolétto dovrebbe, in questo particolare caso, derivare da travolétto, ‘travicello’, diminutivo di travo, ‘trave’. 179 «Ppo’, de le volte, èccote Gnavolóne, ’nti panni, bócco, de ’n grosso saccolóne.» = ‘Poi, di tanto in tanto, ti vedi improvvisamente comparire anche quel diavolo “trasformista” che va sotto il nome di Gnavolóne (la forma lessicale popolare «gnavolóne», s.m., costituisce una rara variante morfologica del termine diavolone), il quale, spesso, appare nei panni («[…] ’nti panni, bócco […]», letteralmente «boccàto», agg. e part. pass., vale a dire: ‘entrato nei panni’)di un frate vestito con il saccone («saccolóne», s.m.). L’epiteto dispregiativo di saccolóne è, talora, affibbiato ad una persona grossa, grassa, sgraziata e malvestita. Linguisticamente, tale voce popolare rappresenta una variante morfologica di saccóne, indicante, un tempo, ciascun membro dell’omonima confraternita medioevale, e, poi, per estensione semantica, e con connotazione fortemente dispregiativa, frati, preti e religiosi in generale. Si consideri, per confronto con la forma saccolóne, lampante accrescitivo di ‘sàcco’, (formàtosi attraverso la fusione in sintagma del diminutivo sàccolo con il suffisso accrescitivo e dispregiativo -óne), come una ‘piccola sacca’ sia spesso chiamata saccolétta, (s.f.). 180 «Tòrge i budelli» = ‘contorcere le budella per la paura’. 181 «Mazzamurèlli» o Mazzamorèlli = ‘spiritelli che apparirebbero durante gli incubi’. 182 «Suda» = ‘trasuda’, a causa dell’abbondante stillicidio da cui sono caratterizzate certe zone di questa parte della montagna, vale a dire il Rio Freddo. 183 ‘Mangia i teneri germogli delle piante’. 184 Voce verbale derivata da spizza’, ‘spizzare’, qui inteso nella rarissima accezione di: ‘mangiare i pizzi’, cioè gli apici di foglie e giovani germogli. 185 La «Capra ’Gnuda» (’gnuda è la forma femminile dell’aggettivo popolare ’gnudo che sta per ‘ignudo, nudo’, cioè ‘senza pelle’) è un misterioso, malefico animale che si diceva popolasse un tempo le parti più remote e selvagge delle nostre montagne. La storia di questo favoloso animale potrebbe avere connessioni attendibili con alcune leggende celtiche, relative alla biche blanche, vale a dire alla ‘cerva bianca’. 186 «Do’ l’acqua se crea» = ‘nella Grotta di Monte Cucco, dove si raccolgono le acque sotterranee del torrente Scirca, prima di venire alla luce dall’omonima risorgente carsica, che ha una portata media annua di 190 litri al secondo’. 187 «’mbugàta» = ‘rintanata’. 188 «sbiancuciàta» = ‘bianca di un pallore cadaverico’, perché vive nella perenne oscurità delle grotte. 189 «’Gèa» = ‘Igea, dea della salute presso i Romani’. Eco lontane e flebili del suo culto sono sopravvissute nelle campagne di Gubbio fino a circa trent’anni fa. In queste aree rurali, infatti, per spaventare i bambini, che si avventuravano nell’oscurità delle cantine, dove avrebbero rischiato di cadere in tinozze o vasche piene d’acqua, si diceva loro: «Sta’ atènto, ché lagiù ce sta la ’Gèa». Ad Igea, che era la dea della salute, identificata talora con l’igiene del corpo, venivano spesso associate le acque e le pràtiche, igieniche e rituali, ad essa collegate. 190 «Fonda» = porzione più depressa di una valle. 191 Si tratta dell’alta Valle delle Prigioni. 192 Ci si riferisce alla località ’L Giardino del Diavolo, situata sul versante meridionale del Monte Motette. All’origine del nome di luogo dovrebbe esserci una efficace metafora, impiegata per descrivere l’asprezza ed assoluta infertilità di questo sito, dove non crescono che arbusti spinosi, ortica e cicuta. 193 Si tratta di una forma d’erosione della roccia calcarea, riscontrabile nella porzione iniziale della Valle delle Prigioni. La fantasia popolare vi riconosce l’impronta di una gigantesca scarpa: quella del diavolo. Dagli abitanti di Pascelupo, infatti, l’incàvo naturale viene ancora oggi chiamato La Scarpa del Diavolo. 194 Il sostantivo maschile ùcco sta per ‘urlo’. 195 Secondo un’antica tradizione di Costa San Savino, il Gigante Monte Cucco sarebbe stato una sorta di fauno dei nostri monti, o, meglio, un bonario uomo selvatico, entrato in tale armonia e simbiosi con la montagna “da assumerne persino il nome e l’imponente sembianza” e da incarnarne lo spirito stesso, forte e buono ad un tempo. 196 Il gigante Sanìa è il protagonista negativo di un racconto popolare di Costa San Savino, che lo vuole distruttore di una grande e civile città denominata Sanìa e mortale feritore di Orlando paladino, che si sarebbe battuto con lui per la difesa di questa città, che doveva sorgere nell’odierna località scheggina Val de Sarnìa. È possibile che, dietro questa leggenda, si celino le distruzioni belliche subite dalla florida e civile statio romana di Ad Ensem, l’odierna Scheggia (incarnata dal paladino Orlando, difensore, in questa narrazione, della civiltà romana contro quella germanica. Si pensi come, ad Assisi, sia ancora viva una leggenda, secondo la quale Orlando duellò e vinse per liberare la città dai Langobardi), in séguito alla discesa di popolazioni di stirpe germanica (incarnate dal malvagio gigante Sanìa) alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Eco lontane e flebili di questi eventi luttuosi ci sono giunte anche attraverso la tradizione orale popolare di Scheggia, che, probabilmente, individua nella vasta Città Luceoli, di cui non sarebbe rimasta in piedi che una superstite “scheggia” i ricorrenti e cruenti episodi di distruzione bellica, verificatisi attraverso il tempo, sin dalle origini di questa terra. 197 L’aggettivo e participio passato ’nciferìto appare costituito da una forma aferetica del nome Lucifero, e, dunque, significa ‘indiavolato’. Di una persona brutta e cattiva si dice infatti spesso che: «Pare ’n cìfero». 198 Si tratta di un’antecima del Monte Le Gronde: il Còr d’Urlando. La tradizione orale popolare di Costacciaro, vuole che qui, Orlando paladino, esalasse l’ultimo respiro, dopo essere stato ferito a morte dal gigante Sanìa, presso Scheggia, dove, si dice, sorgeva una grande città denominata, come il gigante, Sanìa. Sanìa, Sarnìa o *Esarnia, che rappresentano altrettanti toponimi d’origine osco-umbra, dovrebbero essere i probabili nomi dell’insediamento preromano di Scheggia, il quale, in epoca romana, cambiò il nome in Ad Ensem, e, infine, nell’Alto Medioevo, in Sclizia, probabile germanismo toponimico. 199 Il Diàntene prende ora a narrare una storia popolare, tramandàtasi oralmente nel paese di Aiale di Scheggia: quella, assai singolare, della Capra Bergólla. La storia è nata in seno alla cultura espressa dall’intensissima pratica dell’allevamento caprino, oggi caduta completamente in disuso, e che trovava un luogo davvero d’elezione nella rupestre gola calcarea della Foce de Sòmbo, costituendo un’essenziale fonte di sostentamento per le locali popolazioni appenniniche. L’attributo linguistico di Bergólla, riferito a questa fiabesca capra, si riferisce al nome popolare d’una tipica malattia di questi ruminanti, il bergóllo, appunto. Per augurare ad una persona il peggior male del mondo, gli si diceva, ad esempio: “Te ’nìsse ’l bergóllo, comme da le capre!” = ‘Ti cogliesse il bergóllo come avviene alle capre!” Fino al primo Ottocento, si credeva che il dente delle capre fosse “velenoso e mortale per le piante”, poiché questi animali facevano strade d’ogni genere di vegetazione, “desertificando” letteralmente, con il tempo, il territorio abituale di pascolo. «Drent’a la Foce, detta già de Sómbo, dove ch’al lampo s’acompàgna ’l rombo, versa’a L’Aiale, ogn’òmo che risale, arìschia forte da sentìsse male, ch’arancàndo su per quélo spiómbo, ogni fuscéllo pesa più del piombo. Su ppe’ ’sta foce, dove l’erba bólla, ce sta ’ntanata la Capra Bergólla. Ch’è così detta, perché ’n male grosso, tutto quanto j’asassìna ’n’osso, che così è detta, perché ’n male rógno, tutto quanto jje rovina l’ógno. Lóngo e dritto con corno, ed uno storto, mai da nisciuno, ’tista, ha fatto torto. Salva la pelle, del lupo, dal morso, stando niscòsta drent’a Grotti l’Orso. E, dettoquìne, fa sempre vedetta, perché ’l Maligno ’n faccia la vendetta, e, più che altro, bada che i freghétti, del male ’n càdeno drent’ai trabocchetti. Pe’ smacchia’ ’l bosco, i vecchi pecorari, spesse volte ’dopraveno i somari, ma, mèjjo dî somari, èreno i muli, ’taccati, in imbasciàta, per i culi. Pascelupana, ’na somara bianca, carcava ’n mondo, da l’una a l’altra anca. Su La Strada del Sasso, a Costaciàro, c’è ’nco’ ’nna Curva, detta del Somaro. Somarari e gavallari ’l Monte guèrna, ma nisciùn batte quelli de Chiasèrna!». = ‘All’interno di quella splendida gola calcarea, La Foce, altrimenti conosciuta come Foce de Sòmbo, dove al lampo segue immediatamente il rombo di tuono (questa concava valle funziona un po’ alla stregua di una naturale cassa di risonanza, amplificando il rumore dei tuoni), ogni uomo che abbia a dover risalire dai Fondi della Foce de Sòmbo (il fondovalle di questa gola) verso il paese di Aiale, seguendo un antichissimo tracciato armentario, scavato, a tratti, nella viva roccia calcarea rosata ed attraversante la pericolosa Balza del Capetèllo, rischia forte di andare incontro ad un malore, poiché, arrancando su per quello strapiombo, ogni fuscello che porta gli sembra diventare più pesante del piombo. Su per questa valle stretta, in un luogo ove vi sono erbe urticanti («L’erba che bólla», loc. Letteralmente: ‘quell’erba che provoca bolle’), che come l’ortica sono avidamente appetite dalle capre, ci vive rintanata la Capra Bergólla, che è così chiamata, poiché un male grave le rovina completamente un osso, quello del ginocchio, che è così denominata, perché una malattia rognosa («Rógna», agg., forma contratta di ‘rognosa’) le danneggia tutto quanto lo zoccolo («Ógno», s.m. Letteralmente: ‘unghio, unghia’). Con un corno lungo e diritto ed un altro storto, questa capra non ha mai fatto uno sgarbo a chicchessia. Essa scampa dagli agguati che le tende il lupo, standosene rifugiata all’interno di Grotti l’Orso. E, proprio da qui, essa fa sempre la vedetta, per far sì che i ragazzini non vadano a finire nei molteplici tabocchetti tesi loro dal Maligno. I vecchi pastori per tagliare («Smacchia’», v tr., denominale di macchia. Es.: “Smacchia’ la legna”, ecc.) il bosco adoperavano sovente i somari, ma, nell’espletare tale funzione, meglio di questi ultimi erano senza alcun dubbio i muli, che venivano spesso legati in una fila indiana, denominata “ambasciata”, perché somigliavano ai cortei di cavalli, di cui si servivano gli antichi ambasciatori. Un tempo, una somara di Pascelupo, nata singolarmente albina, riusciva a caricare una grandissima quantità di legname, ben sistemata ai due fianchi dell’animale (baràste, s.f. pl., è il nome popolare di questo tipo di disposizione del carico della legna sull’animale, che deriva dal greco e significa ‘ciò che giace a lato’). Lungo l’antichissima Strada del Sasso di Costacciaro, si incontra, ancora oggi, una svolta di tratturo, significativamente denominata, a causa della sua ristrettezza dimensionale e del suo essere a gomito, La Curva del Somaro. Questo nostro monte dà ancora da vivere a molti “somarari” e “cavallari”, ma, fra questi, i migliori in assoluto, sono, senza dubbio alcuno, quelli di Chiasèrna’ (a Chiasèrna di Cantiano, il mestiere del “cavallaro” è ancora vivo, sebbene si vada rapidamente rarefacendo. Nello stesso paese si alleva un bellissimo cavallo che ha recentemente assunto la dignità di razza: Il Cavallo del Catria). 200 «Bastignando» = ‘bestemmiando’. 201 «Ógno» = ‘unghia’ (specie di un animale). 202 L’espressione «Ponta’ jj’ogni» vale, letteralmente, «puntare le unghie», cioè: ‘affondare le unghie, allo scopo di resistere ad una forza, materiale o morale, avversa’. 203 Una leggenda di Costacciaro narra che il diavolo, passando “furiosamente” una notte (il demonio, essere ctonio per eccellenza, si manifesta ed opera essenzialmente con il favore delle tenebre, restandosene latente nelle ore del meriggio) per questi luoghi, dette una “gran smanàta” al margine del Monte Poggio Foce, stampandovi per sempre l’impronta delle cinque dita della sua mano. Il luogo, in cui si vedono cinque grandi fenditure, di epoca imprecisabile, ma di sicura opera umana, è ancor oggi detto I Spacchi o I Cinque Spacchi del Diavolo (cfr. sull’argomento: Bellucci, G., 1884, Il Colle di Orlando presso Costacciaro, “Annuario”, Sez. C.A.I. di Perugia, disp. I, p.7). 204 Secondo un racconto popolare di Costa San Savino, a praticare le cinque grandi incisioni degli Spacchi fu, invece, il paladino Orlando, che, sconfitto in duello dal gigante Sanìa, e dirigendosi incontro al suo fatale destino verso la vetta del Monte Le Gronde, passando per questo luogo, volle sfogare la rabbia accumulata in seguito alla sconfitta, dando, con la Durlindana, cinque grandi “spatasciàte” (‘spadate’) alla roccia del Monte e aprendovi, così, le attuali cinque fenditure, simili ai merli di un castello. 205 «Quann’a la sera calla giù la sfera, ’m po’ prima che del ciel l’aria s’annéra, de ’sta mane s’alùnghen tutti i déti, toccando ’n punto del monte dei Moréti. ’Nte ’l punto esatto, ’nsegnato da ’sta mano, c’honno setóro ’n grande capitano; si de conosce ’l nome suo c’hai sete… quann’era vivo jje dìsser Narisete.» = ‘Quando, a sera, tramonta la sfera del sole, un poco prima che l’aria del cielo divenga completamente nera, si distendono tutte le dita di questa mano (“La Mano del Diavolo”, altro nome popolare de “I Cinque Spacchi del Diavolo”), fino a toccare un punto, presente sul monte de I Moréti. Nel punto esatto indicato da questa mano, qualcuno seppellì un grande capitano generale; se la sete di conoscenza ti stimola a conoscere il suo nome, sappi, che, quando era in vita, costui ebbe il nome di Narsete’. Secondo una ormai pressoché desueta tradizione orale popolare di Costacciaro, la luce radente delle ore prossime al tramonto, passando per I Cinque Spacchi del Diavolo, verrebbe proiettata in un punto preciso della retrostante montagna. In questo punto esatto sarebbe stato sepolto un certo “Narisete”. Gli Spacchi sarebbero, dunque, stati concepiti proprio per indicare ai posteri il luogo di sepoltura di Narisete, vale a dire del generale bizantino Narsete, che sconfisse Baduila (o Totila), re degli Ostrogoti, nel 552 d.C., nei pressi di Fossato di Vico o Gualdo Tadino. Tuttavia, la storia insegna che Narsete (vincitore di Totila, il quale, ferito a morte, dovette essere rapidamente sepolto) poté fare ritorno in patria, dove fu solennemente celebrato il suo trionfo. 206 «Monte vano» = ‘Monte cavo’. 207 In una pergamena del 1339, appartenente alla Comunanza Agraria degli Uomini Originari di Costacciaro, passando in rassegna i confini del castello di Costacciaro (Castrum Collistacciarii) e della sua curia, si cita un fossato confinario col nome di «fossatum Sirbani», cioè, appunto, ‘fosso di Silvano’, che, fra le altre cose, era anche ‘protettore dei confini’. 208 «’Niva» = ‘veniva, scendeva’. 209 Di molto probabile origine germanica è il sostantivo maschile dialettale drugolóne, che indica un ‘giovane grande e grosso’ e, soprattutto, ‘di modi grossolani’. Il termine dovrebbe rappresentare una forma, foneticamente evoluta, dell’italiano antico drudo, ‘amante leale’, ma, anche, ‘ganzo’. Drudo è voce d’origine germanica, penetrata in Italia probabilmente in seguito alla discesa delle popolazioni germaniche col declino e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. I Franchi conoscevano tale termine sotto la forma drüd, ‘fedele’. 210 Timolaónte o Timoleónte è un nome, storicamente documentabile, portato da un uomo di Isola Fossara, scomparso ormai da molti anni. L’uomo era soprannominato Tìmole o Tìmolo. Il personaggio buono di Timolaónte, una sorta di uomo selvatico, bonario e generoso, descritto dal Diàntene è di pura fantasia. Il nome personale è, come Timolao, di cui pare una derivazione, di possibile origine greca o greco-bizantina. 211 Il personale Tìmolo è una probabile variante fonetica del nome proprio di persona Timolao, che, derivante dal greco, e, poi, successivamente, latinizzato in Timolaus, vale: ‘(colui) che dà onore al popolo’. 212 «’St’òmo» = ‘quest’uomo’. 213 «Foràstico» = ‘selvatico, selvaggio, umbratile, schivo ed elusivo’. Semanticamente, il termine costituisce il contrario di ‘domestico’. 214 «Bughe» = ‘grotte’. 215 «S’amùcchieno» = ‘si affollano’. 216 «Le paure» = ‘le incarnazioni di tutte le cose che spaventano l’uomo’. Queste ultime, passerebbero le ore diurne ben nascoste nelle tenebre delle grotte, per poi manifestarsi con il favore delle tenebre. 217 «Lóngo» = ‘alto’. 218 «Pìgo» = ‘arnese di legno, lungo ed appuntito, piolo’. 219 Quest’arcaico e strano nome, attribuito ad un’egmatica figura d’uomo di Isola Fossara, che alcuni ultranovantenni del paese sostengono sia realmente esistito, con il nome di battesimo di Cesare, dovrebbe celare antiche credenze relative a fauni od uomini selvatici, vagabondi abitatori dei boschi e propizi od ostili al buon andamento delle attività umane silvo-pastorali, a seconda del comportamento tenuto degli uomini nei loro confronti. Un altro di questi “dèi Pan o Silvani nostrali” è incarnato dalla figura, umbratile ed elusiva, del Gigante Monte Cucco. Il nome o soprannome Zigo potrebbe risalire al greco-bizantino sigh’, ‘silenzio’ (a causa della grande silenziosità di quest’essere), o zugón/zugóV, ‘giogo’, e, per estensione metaforica: ‘sommità dei monti’. L’antroponimo, di tradizione popolare, potrebbe altresì rappresentare un ipocoristico apocopato di nomi d’origine germanica, costituiti dal segmento di composizione nominale *sigu-, ‘vittoria’ (es.: Sigfrido, Sigismondo, ecc.). 220 «Limòsina» = ‘elemosina, carità’. 221 «Jje la» = ‘gliela’. 222 «Dévi» = ‘davi’. 223 «Guardava» = ‘sorveglia, vegliava, custodiva’. 224 «Gne la» = ‘non gliela’. 225 «Te féva le modèstie» = ‘ti faceva le molestie, ti molestava’. 226 «S’alontanàva» = ‘si allontanava’. 227 «E déva fòco da tutte le stalle» = ‘e appiccava il fuoco a tutte le stalle’. 228 «Canne» = ‘unità di misura di lunghezza, in uso fino al XIX secolo’. 229 «Ad arde» = ‘a ardere’. 230 «’N potere lue» = ‘un potere lui’. 231 «Staccava ’l volo senza avécce l’ale» ‘si levava in volo senza avere le ali’. Questo particolare del racconto popolare esposto dal Diàntene è di pura fantasia. 232 Secondo la tradizione orale popolare di Villa Col de’ Canali, Zìgo sarebbe stato un famoso brigante, che si spostava sempre sotto la protezione della sua banda: “la banda de Zìgo”. Toponimi come L’Antro dei Briganti, La Grotta dei Ladri, La Balza del Bandito, ecc., testimoniano l’esistenza di un periodo di intenso brigantaggio nelle nostre zone. Ad una persona scaltra e “rapace”, si usa dire: «Sai peggio de Zìgo!», mentre, all’indirizzo di un gruppo di persone dal comportamento furfantesco, si rivolge l’espessione «Paréte la banda de Zìgo», vale a dire: ‘sembrate la banda di Zìgo’. 233 Cinìcchia (< “piccinìcchia”, ‘piccolo [di statura]’). Il termine cinìcchia, per ‘piccolo’, si userebbe tuttora nel sigillano attuale.
234 «Del Pont’a Bótte, drent’a ’n brutto sito, niscòsto s’era un famoso bandito. Tutte le volte che l’éveno cercato, lue, ’nte le grotte, s’era rimbugato. ’Nsómma, poco più ’n là de l’altro ieri, ’chiappato non l’éveno mai i carabignèri, ma comme ’nte ’l laccio dà la volpe vecchia, ecco che uno lo ’chiappa pe’ ’nn’orécchia, pe’ ’nna ’récchia lo ciàffa, e lo stragìna, da cima al Pont’a Bótte ’na matìna. Ma mèntre jj’alàccia, strette, le manette, quisto jj’abrànca ’l collo e le basétte, punta i du’ piedi, e, sùbbito, se slanza… giù lo sprefóndo, tenèndojje la panza. Mèntre che vola fra i bracci de la morte, ché tutti sènteno, lue te grida forte: “’Mazzi n’évo dagià, ’nte l’Ottocento, novantanove, e, con te, fan cento!” Prima, però, che jje gìssero a male, i marénghi ’nguattò ’nte ’nno stivale, tutti i marénghi sua, sonanti d’oro, ’nte la panza niscóse de ’nno snòro. Un de tolì, nomato, già, Villétto, li cerca, da quel di’, ma senza effetto. Diversamente, però, fece Maréngo, che col suo fare non poco lupéngo, scovò, ’n bel di’, sopre Ca’ Magiorétto, tanti marénghi, zeppìti, ’nte ’n sacchetto. Tanto fu ricco, da doventa’ baléngo, che, da quel giorno, jje dìssero Maréngo». = ‘All’interno di un luogo inospitale, sito nella località Ponte a Bótte di Scheggia, un famoso bandito aveva trovato il suo temporaneo rifugio. Ogni volta che i carabinieri lo avevano cercato, costui era riuscito a dileguarsi, celandosi nelle caverne («rimbugato», agg. e part. pass.) e negli androni che abbondano in questa suggestiva parte d’Appennino. Insomma, fino a non molti decenni or sono, i carabinieri non l’avevano ancora assicurato alla giustizia. Tuttavia, poiché, prima, o poi, persino la vecchia volpe astuta finisce per cadere nel laccio tésogli dai cacciatori, così un carabiniere riuscì, finalmente, ad afferrare il bandito per un’orecchia («pe’ ’nna ’récchia lo ciàffa») e a trascinarlo fin sopra al Ponte a Bótte. Ma, mentre il mìlite è intento a mettergli le manette, costui riuscendo a divincolarsi, lo afferra «jj’abrànca», letteralmente: ‘gli abbranca’, f.verb.) per la vita, il collo e le bassette, e, puntando i piedi a terra, si getta «se slanza», letteralmente: ‘si slancia’, f. verb.) con lo stesso carabiniere, abbrancandolo per la pancia, giù per il dirupo roccioso sottostante al gran ponte di Scheggia. Mentre vola dritto fra le braccia della morte, affinché tutti possano chiaramente udirlo, il bandito grida a squrciagola: “Nel corso dell’Ottocento, avevo già fatto fuori «’Mazzi n’évo dagià», letteralmente: ‘ne avevo già ammazzati’…), novantanove persone ed ora -rivolgendosi direttamente allo sventurato carabiniere- con te fanno cento!”. Prima, però, che facessero tutti una brutta fine, il bandito aveva pensato bene di nascondere«’nguattò», letteralmente: ‘nascose molto bene’, f. verb.) i suoi tanti marenghi d’oro, frutto delle sue novantanove e più rapine, nel tronco cavo d’un albero d’alloro («snòro», s.m., raro fitonimo dialettale, proprio, in realtà, della parlata di Isola Fossara). Una persona che viveva dalle parti del Ponte a Bótte e che era soprannominato Villétto «Un de tolì, nomato, già, Villétto», da quel giorno, fino al dì d’oggi, non ha fatto altro che cercare questi marenghi, ma, ahilui, senza alcun risultato «effetto», s.m. Tutto l’inverso, invece, capitò ad un tal Maréngo, che, con il suo fiuto lupino («lupéngo», agg., forma metatetica dell’italiano lupìgno, ‘di lupo, relativo al lupo’, con passaggio di -i- ad -e-) ed il suo muoversi circospetto, presso la località Camaggiorétto (interessante questo toponimo, a causa della presenza del termine toponimico Ca’, ancora oggi riscontrabile, con una certa frequenza, nel territorio eugubino ed in quello cagliese, e, sebbene assai raramente, almeno sin dal XV secolo, Ca Belardelli di Colmartìno di Costacciaro, anche nell’area del Parco del Monte Cucco: Ca’ Magióre, Ca’ Minore, Ca’ Magiorétto, ecc.) di Scheggia, ebbe la ventura di scoprire, nel cavo di un annoso acero campestre, un sacchetto traboccante di pressati «zeppìti», (agg. e part. pass.) marenghi d’oro. Costui, che divenne talmente ricco da rischiare di divenire pazzo («baléngo, s.m. e agg.»), da quel giorno in poi fu sempre soprannominato Maréngo’. In un giorno imprecisato del milleottocento, un feroce bandito, che aveva commesso ben novantanove omicidi, trovò, finalmente, il suo estremo rifugio fra le rupi e le balze della Foce de Sòmbo. Dopo molte battute di ricerca risultate vane, una brigata di carabinieri era, infine, riuscita a localizzarlo, tagliargli ogni via di fuga e costringerlo alla resa. Uno dei carabinieri stava per mettergli le manette sopra il Ponte a Bótte, quando, il bandito, afferrò alla vita il mìlite, e, con esso, si gettò mortalmente nello strapiombo sottostante al ponte, esclamando a gola spiegata: «Novantanove n’ho già ’mazzi, e, con te, n’èn cento!». Si narra, poi, che tale brigante avesse nascosto uno stivale pieno di marenghi d’oro nella concavità di un albero della Foce de Sòmbo, stivale che fu per anni cercato vanamente in molti tronchi cavi del bosco prossimo alla Balza del Bandito, scoscendimento roccioso che avrebbe preso il nome che porta, solo in séguito all’episodio appena narrato. Nella località Ca’ Magiorétto di Scheggia, invece, un giovane trovò realmente, all’interno d’una “pianta d’albero”, vale a dire di acero campestre (Acer campestre) una grande quantità di marenghi d’oro. Da allora, l’uomo fu soprannominato Maréngo. 235 «Per la mentalità arcaica, la bianca fioritura del pero era il riflesso della Luna divinizzata. Ora, questa splendeva sul mondo dei morti, da cui il carattere spesso sinistro che quest’albero ha conservato nel folclore». Cfr. Jacques Brosse, Storie e leggende degli alberi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, p. 172. 236 Lungo la strada che da Isola Fossara conduce a Fonte Avellana sorgeva un grande, vecchio e “nodróso” “peràio”, da tutti conosciuto come Pero del Diavolo. Chiunque passava dalle parti di quel pero, si teneva bene alla larga da quella pianta, poiché, passandovi vicino, avrebbe certo rischiato di vedersi comparire il diavolo in persona e sarebbe stato trafitto e raggelato («ghiadìto», agg. e part. pass., tratto, metaforicamente, dal latino gladius, ‘spada corta’, poiché chi è raggelato dal freddo diverrebbe rigido e gelido come la lama d’una spada, o resterebbe “ripréso”, cioè a dire ‘teso, rappreso’, come chi, trafitto dalla spada, fosse colto dal rigor mortis, vale a dire dalla ‘rigidità della morte’) dalla paura. L’albero si è seccato da molti anni e pare non esisterne più neanche un “trincicóne”, vale a dire nemmeno uno ‘spuntone’, un ‘moncone’. 237 «Viddi la léngua, lónga, del dimògno, la viddi lónga, ma nonn’era ’n sogno. Viddi la léngua ròscia, a spendolóne, del dimògno, comme ’n seghettóne. Viddi ’n serpente lóngo, lóngo, lóngo, ch’a mesuràllo ’nn’arìva ’nno stóngo. E ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, ’l codino lue stacciàva, ribirato; e ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, me fece, pe’ la ppèsta, ’mpunta’ ’l fiato. I corni viddi lónghi de Bofógno, jje viddi i corni, e l’arbirato ógno. Alóra ’nn’ància ’ntési, drent’a jj’òssi, che fatto me sarìa porta’ da i fossi. Alóra ’nn’ància ’ntési, tanto forte, comme l’abràccio ghiaccio de la Morte». = ‘Vidi la lunga lingua del demonio, la vidi lunga, ma non era un sogno. Vidi la lingua rossa, penzoloni, del demonio (la tradizione orale popolare delle nostre parti vuole che il demonio abbia la lingua lunghissima, perennemente ciondolante fuori della bocca e di color rosso sangue), simile a un serpente «seghettóne», s.m., vale a dire ad un ‘saettone’ (Elaphe longissima). Vidi un serpente lungo, lungo, lungo (si tratta sempre del demonio, che, ora, appare in sembianze zoomorfe), che, a misurarlo, non basterebbe un passo stirato di un uomo («stóngo», s.m., < dal gotico *stuggs, ‘imbastitura’). E, mostrandomi il culo, poiché era confitto nella terra (il demonio è essere ctonio per eccellenza, che rifugge la luce del sole, simbolo di Dio e tende, a causa della pesantezza della pura materia di cui è composto, verso il centro della terra) a testa in giù («’ncapuzzàto» o «’ncapozzàto», agg. e part. pass.), agitava («stacciàva», f. verb., letteralmente: ‘setacciava’, vale a dire ‘faceva un movimento simile a quello, pendolarmente alternato, che si imprime, nel vagliare, al setaccio’) furiosamente la codina attorcigliata («ribirato», agg. e part. pass., letteralmente: ‘rigirata’, come quella del maiale), e, per il gran fetore («ppèsta», s.f.) che emanava, mi fece venir meno il respiro («’mpunta’ ’l fiato»). Vidi, poi, le corna di «Bofógno», s.m., (Vofiòno o Vofióne, una delle tre divinità principali, “Triade Grabovia”, del Pantheon umbro, indicata, nelle Tabulae Iguvinae, quale deità ctonia), vidi le sue corna e le unghie ricurve. Allora, provai una tale ansia («ància», s.f.), nel profondo del mio essere («drent’a jj’òssi», letteralmente ‘nelle ossa’), che mi sarei fatto trascinare via dall’eterna ed inarrestabile corrente di tutti i fossi. Allora, avvertii una tale angoscia, nelle insondate profondità del mio animo, che mi parve di sentire l’estremo, gelido abbraccio della Morte’. 238 «A Sant’Angelo, detto Doposèrra, che dei ucèlli ’l passo sempre sèrra, ce sta piantato ’n grande casermone, ch’hanno abitato ’n mucchio de persone. De ’sto palazzo, drento a ’nn’erto muro, ce stéva, ben murato, ’nn’osso duro. La testa era ’tista de ’n pòr’òmo, mai sapperìmo si catìvo o bòno. Comme che fusse, tésta testa morta, perché mai più ’nte ’n casa fusse scòrta, ficcàreno ’nte ’n bel sacco de lino, con che ’l buttàreno dritto ’nto ’l Sentino, perché ’sta testa non dasse più spavènti, la danno sùbbito da l’acque correnti. Ma, de brugno, più tosto de ’nn’osso, ’sto grugno via ruzzola dal fosso, e, tanto bene, s’avùltica e zompetta, ch’arrèccolo arrentra’ ’nte la casetta. ’Nsómma, a la fine, ’sta testa de morto, sloggio’ chiunque de lia se fusse ’còrto. Dietr’a ’sta casa, ’na tròscia c’era brencia, do’ se buttàreno tanti pe’ l’anguència, pe’ l’anguència da campa’ drent’a ’n palazzo, do’, ’nco’ ’l più savio, sarìa dovènto pazzo. Tanti, ppo’, gìveno a prega’ Michele, ch’era ’nn’arcàngiolo ’n gran bel po’ fidele, a pregàllo andaveno a la chiesa, do’ c’era ’n diavolo da la coda tésa, ppo’, grosso e lagrimevole a vedéllo, c’era, de legno, ’n crocifisso bello. C’éva la faccia de l’omo dei delóri, a cui annalzòrno ’nna marea de còri. A Sant’Angelo, detto Deposèrra, la porta de ’n palazzo sempre serra, de ’n pòro morto la scarnìta testa, che, mai più, chi la vede, ’nn’artèsta. ’Nte ’l paese, ch’è chiamato Tròppola, sempre ce vive, morta, ’sta caciòppola.» = ‘In quella località eugubina, conosciuta col nome di Sant’Angelo Doposerra (o, in antico, Deposerra < latino de + post + serram, che tradotto, vale ‘al di là della Serra, oltre la Serra’) che essendo angusta, costringe gli uccelli migratori (è, questo, un importante corridoio migratorio) a raggrupparsi per superare lo stretto valico, ci sta ben piantata una vasta casa contadina («casermone», che, letteralmente, vale: ‘grande caserma’), nella quale, attraverso i secoli, hanno abitato un gran numero di persone. All’interno di una nicchia, scavata nell’erto spessore di un muro interno dell’abitazione trovava un tempo posto un cranio umano, che fu successivamente murato all’interno di questo incàvo. Era, questo, il capo di un defunto, del quale mai sapremo se, in vita, sia stato cattivo o buono. Comunque sia, una sera, gli abitanti di quella casa pensarono bene che questa testa morta, perché non fosse mai più veduta, con spavento, da alcuno, dovesse essere ficcata in un resistente sacco di lino, insieme al quale potesse, di nascosto ed agevolmente, essere gettata nel vicino Torrente Sentino; e, proprio nel preciso intento che essa non avesse più a cagionare spaventi, costoro affidarono il destino del cranio alle acque fluenti del torrente. Ma, poiché quest’osso («grugno» = metafora zoonimica, qui volutamente impiegata per alludere dispregiativamente alla cocciutaggine del cranio) era più duro (e cocciuto) del nòcciolo di una prugna («òsso de brugno» = frequente locuzione comparativa, impiegata per descrivere, in maniera metaforica, l’estrema durezza d’un oggetto) rotola via dal fosso e ruzzola e saltella tanto bene da ritrovarsi all’alba nella sua casa d’origine (secondo il racconto popolare, il cranio apparteneva ad una persona nata e cresciuta in quest’abitazione) e proprio al centro della sua nicchia («casetta» = alla lettera: sia ‘piccola casa’, sia ‘piccola cassa da morto’. Compiendo quest’atto prodigioso, la testa riuscì così a far sloggiare dalla casa chiunque si fosse accorto della sua inquietante presenza. Sul retro di questa casa stregata, esisteva uno stagno ubriaco («tròscia […] brencia» = entrambi questi dialettalismi lessicali sono di probabile origine germanica, il primo, risalendo, forse, al gotico ga drausian, il secondo, come l’omologo aggettivo, vale a dire brénco, ‘ubriaco’, al verbo trinken, ‘bere’), nel quale, per l’angoscia («anguència», s.f., raro termine d’area eugubina, forse risalente al latino anguis, ‘serpente’, o, più propriamente, riconnettibile ad un triplice incrocio fra le voci italiane angustia e languire ed il termine dialettale ància, ‘ansia’ ) provocata dalla presenza di questo cranio, ebbero a gettarsi molte persone, vi ebbero a gettarsi così tante persone per l’angoscia d’abitare in un palazzo, dove, persino il più savio del mondo, avrebbe rischiato di diventare («dovènto», part. pass., = forma contratta che sta per ‘diventato’) pazzo. Tanti altri, poi, ricorrevano a San Michele (un arcangelo estremamente fedele ai suoi devoti), con preghiere ed invocazioni, perché scongiurasse definitivamente questa presenza malefica, come aveva fatto lottando vittoriosamente contro il demonio. Queste pesone si recavano a pregare San Michele nella chiesa di Tròppola di Gubbio, a lui intitolata, almeno sin dall’anno Mille e nella quale trovava, un tempo, adeguata collocazione un grande, bello, e commovente crocifisso ligneo (tale vera e propria opera d’arte è oggi conservata nel Museo Diocesano di Gubbio). Questo crocifisso mostrava l’autentica faccia di Cristo, l’uomo dei dolori, a cui i Cristiani innalzarono sempre, e in tutti i luoghi, una gran quantità di cori. Nella località Sant’Angelo de Posèrra, la scarnita («scarnìta», agg., cioè: ‘privata della propria carne’) testa di un uomo (che, a chiunque capiti la sventura di vederla («’nn’artèsta», f. verb., letteralmente: ‘sragiona, vaneggia’), essa fa perde immantinente, e per sempre, la ragione) tiene sempre forzatamente serrata la porta di un palazzo. In quel piccolo centro che reca il nome di Tròppola (< latino intra pabula, ‘luogo compreso tra i pascoli’), continua sempre e ostinatamente a viverci questa vivente testa di morto («caciòppola», s.f.)’. Il palazzo di Sant’Angelo di Poserra è molto antico, vasto e costruito quasi interamente con pietra arenaria, eccezion fatta per qualche raro concio di calcare. È, poi, situato, in posizione eminente e panoramica, lungo l’antichissimo tracciato viario, collegante, ancora oggi, Scheggia con Gubbio. 239 ‘In quella valle della montagna sigillana, che è denominata Valle del Sodo, una valle rinserrata tra due alte pendici di monti, un giorno perse la vita un lupo, perché voleva mangiare capre e pecorelle. Ad una rupe, denominata Il Balzone, da quel giorno in avanti il lupo legherà per sempre il suo nome. Mentre, infatti, era intento a dare la caccia ad una capretta, questa, scansandosi all’improvviso, con la velocità del fulmine, lo fa trovare di fronte al precipizio della rupe, nel quale viene precipitato dalla gran rincorsa che aveva preso per azzannare la bestiola. Questo lupo precipita nel vuoto e sbatte i denti in maniera talmente violenta, che, da quel momento in poi, esso non avrà più a soffrire i morsi della fame, né i brividi del freddo, poiché, col brutto vizio di mangiare il bestiame ai poveri pastori del luogo, perderà definitivamente anche la vita. Questo lupo sbatté i denti così forte, che l’animale, da allora in poi, non farà più parte del consesso dei viventi. Proprio a causa del fatto che questo lupo perse allora tutti i suoi denti, i cacciatori, ricordando contenti l’episodio, ora se la ridono con tutti i loro denti. Quello che una volta era soltanto un cupo salto di roccia, ora è denominato Balzone del Lupo’. 240 ‘Sfrega’. 241 «Toccarà» = ‘toccherà’. 242 «Scoprìvve ’sta magàgna» = ‘mostrarvi questo marciume’. Alla lettera, la magagna è ‘la parta ammaccata e marcia di un frutto, che, spesso invisibile, perché formatasi all’interno della polpa, viene improvvisamente in luce, forando la superficie della buccia’. 243 «Tònnica» = ‘tonaca, saio’. 244 «Averéssivo sentito a batte l’ora» = ‘avreste sentito suonare l’ora, come si sente il rintocco prodotto dal batacchio all’interno di una campana’. Questa storiella popolare è stata registrata dalla viva voce di una vecchia donna di Villa Col de’ Canali, ora scomparsa. 245 «Prete sòna e serva balla, tirintèra giù la stalla, si dal prete jje va bòna, prete balla e serva sòna» = ‘il prete suona e la perpetua (“serva”) balla una tiritera (“tirintèra”, s.f.) nella stalla, se il prete è di buon umore (“jje va bona”), è lui a ballare mentre la perpetua suona’. Antico scioglilingua popolare in ottave, di contenuto maliziosamente ironico. Il prete suona, infatti, lo strumento di cui lo ha fornito la provvida madre natura, facendo ballare la perpetua sulle sue note. 246 «’N cavanciulla» sta per ‘sulle spalle’. 247 «Su la ficara mia non ce se monta, perché l’è troppo piccola la pianta» = ‘antica strofa del canto del Maggio di Gubbio’. 248 «Je géva» = ‘le andava a genio’. 249 «Géva» = ‘andava’. 250 «Quel ch’ja parso» = ‘ciò che le sembrò conveniente’. 251 «Lia» = ‘lei’. 252 «Féva» = ‘faceva’. 253 «Mo’» = ‘adesso’. 254 «Bell’e vecchia» = ‘ormai vecchia’. 255 «Pecàto» = ‘peccato’. 256 «Avrìa» = ‘avrebbe’. 257 Il sostantivo maschile becco indica il ‘maschio della capra, il caprone’. 258 «Fiolétta» = ‘ragazzetta’. 259 «Poccétte che me parghi ’n’ agnella» = Nella società contadina di un tempo, i piccoli seni (‘poccétte’) delle ragazze adolescenti venivano spesso paragonati, con intento ironico, alle mammelle delle giovani femmine di pecora (‘agnelle’). 260 «Taccati pe’ i budelli». La colorita espressione indica l’unione “viscerale” tra due persone. Il Diàntene ricorda, con struggente nostalgia, uno dei rari momenti d’intimità trascorsi con la ragazza amata. 261 «“La natura de la donna è ’na fissura, do’ ce cape ’nna robba lónga e dura e ce scappa ’na téndera criatura”. “La porta è, ’tista, detta de la vita”, ch’a la festa e a la gioia l’òmo anvìta.» = ‘la vagina della donna è una fessura nella quale entra una cosa lunga e dura e dalla quale esce una tenera creatura. Questa, è detta anche “la porta della vita”, perché invita sempre l’uomo ad essere gioviale e festoso’. 262 «Scapezzóne» = ‘albero capitozzato’ e, assai raramente, ‘collinetta’. 263 «Gumèra» = ‘punta di ferro dell’antico aratro di legno’. 264 «Sorge ’l sole su ’nno scapezzóne e ’nte ’l còre me s’è ’nfilzata ’na gumèra…» = antica strofa del canto del Maggio. Il sole che sorge rappresenta la donna di cui ci si è innamorati; l’albero capitozzato, l’uomo privato dell’amore; la punta dell’aratro infilzata nel cuore simboleggia le pene di un amore non corrisposto. 265 «Coldagelante» = ‘abitante di Coldagelli, frazione di Costacciaro’ 266«Io ce lasciai tutti i budelli» = ‘io vi lasciai i sentimenti più profondi della mia anima’. 267 «Ècco l’acqua» = ‘ecco che arriva la pioggia’. 268 «Ècco Giorgio da ’l mulino» = ‘ecco Giorgio che fa ritorno dal mulino’. Evocando l’immaginaria figura di quest’uomo di nome Giorgio, che simboleggiava (secondo l’etimologia greca, propria dell’antroponimo, vale a dire gewrgóV, ‘agricoltore, contadino’) ogni ‘uomo dei campi’, e dunque, anche il Diàntene, la cui figura esprimeva un forte legame con la terra ed un profondo radicamento nelle proprie tradizioni, le femmine dell’Essere della Montagna si auguravano un rapido e felice ritorno a casa dei loro amati. 269 Questo proverbio vuol significare il fatto che, d’inverno, la piana di Colmartìno di Costacciaro è spazzata da fortissimi e rigidi venti di tramontana, che facevano penare non poco i viandanti di un tempo, anche perché accumulavano alti mucchi di neve (“réfeni”, s.m. pl.), Che era difficilissimo attraversare. 270 «Chiuìno», voce onomatopeica, è il raro diminutivo in –ìno dell’ornitonimo popolare chiù, ‘assiòlo’. 271 La locuzione bon’ora equivale, letteralmente, a ‘buona ora’ ed indica le ore dell’alba, poiché si ritiene che esse siano le più salutari e propizie al lavoro, allo studio e a molte altre occupazioni. 272 «Te va bòna» = ‘la fortuna ti è a favore’. 273 Dalla forma e l’intensità dell’irritazione provocata sulla pelle dall’erba rosa, (le cui foglie venivano intenzionalmente stropicciate sul dorso della mano), un urticante e rubefacente, le ragazze cercavano di presagire se il loro futuro amoroso sarebbe stato fausto od infausto; durante questa pratica era d’uopo recitare la seguente formula propiziatoria: “Erba rosa (o “bamba rosa”), erba rosa (o “bamba rosa”), si me vòi bene famme ’na rosa, si me vòi male famme ’na bolla, comme ’n capo de ’na cipolla”. 274 Il cucùlo, annunziando la buona stagione ed il maggio, mese, per eccellenza, dell’amore, permetteva, con la divinazione basata sul suo canto, di vaticinare a ragazze e ragazzi il destino del loro futuro amoroso ed il tempo in cui si sarebbero sposati. Sentendo il suo canto, le ragazze dicevano, infatti: «Cucco, cucco, dal becco fiorito, quanti anni ci ho più per pia’ marito?». I ragazzi recitavano, invece, una rima leggermente diversa: «Cucco, cucco, da le penne mólle (vale a dire ‘bagnate’), quanti anni ci ho più per pia’ mójje?».
275 ‘dovunque’. 276 «Se ’n giva.» = ‘se ne andava’. 277 ‘Invece di confidare in Gesù Cristo, l’uomo attuale adora il “dio quattrino”. Ora l’uomo è diventato completamente matto («mattematico»), poiché, invece di apprezzare la qualità delle cose, lui ne ricerca soltanto la quantità. Al posto di prendere ciò che la fortuna gli assegna, lui cerca di ottenere sempre più beni materiali. Una volta l’uomo sapeva contare soltanto fino a dieci ed era completamente appagato di ciò che possedeva. Lui sapeva contare soltanto sulla punta delle dita, ma i numeri che impiegava allora sono quasi tutti spariti, il solo rimasto è il numero dieci, gli altri te li dico ora come se recitassi delle preghiere: uno, due, tre, quattro, cinque, poi vengono il sei, il sette, e, infine, l’otto e il nove senza intoppi (quest’antica numerazione, benché trasmessa dalla tradizione orale popolare delle nostre zone, è puramente immaginaria). “Si viveva meglio quando si stava peggio” (frequente detto popolare). Dal piccone («picco») pesante («péso») che avevamo ora ci tocca lavorare con il «malinpeggio», vale a dire con uno strumento di lavoro micidiale, che da una parte ha una tagliente lama verticale, e, dall’altra, una orizzontale’. 278 ‘Ragazza adolescente’. 279 È, questo, un antico consiglio terapeutico proprio della nostra farmacopea popolare. Il mangiare le prime tre viole incontrate, durante la primavera, lungo il proprio cammino era considerata una vera e propria panacea. 280 «L’avedóre» = ‘l’odore’ (termine arcaico e desueto). 281 «Santuréggia» = ‘santoreggia’ (Satureja officinalis), pianta officinale ed aromatica, dal forte e persistente profumo. 282 Quest’antico proverbio meteorologico popolare era, un tempo, largamente diffuso ed impiegato fra le popolazioni di Gubbio, Gualdo Tadino e Fabriano. 283 «Genàro» = ‘gennaio’. 284 «La parùcca» = ‘la parrucca, cioè, metaforicamente, un copricapo di neve’. 285 «Ambacùcca» = ‘imbacucca’. 286 «D’ucèlli» = ‘di uccelli’. 287 «’Taccati» = ‘appesi’. 288 «Solióne» = ‘solleone’. 289 «Rappóne» = ‘ripone, rimette nei granai’. 290 «Irrobìna» = ‘fa rosseggiare’. 291 «Ottobre dei bei vendemmi rimpe la tina» = ‘ottobre riempie il tino con i bei grappoli appena vendemmiati’. 292 «Novembre ’mucchia aride fòjje in terra» = ‘novembre ammucchia in terra le foglie disseccate’. 293 «Dicembre ’mazza l’anno e po’ ’l sotèrra» = ‘Dicembre pone fine all’anno e poi lo seppellisce’. Questa lirica carducciana era appresa a scuola dai contadini e tramandata oralmente con le numerose varianti fonetiche, morfologiche e lessicali, fedelmente registrate nella presente trascrizione. 294«u-scià-scià» era l’antico richiamo dei pastori del Monte Cucco. 295 «Da toquì a tolà.» = ‘da qui a là’. 296 «Vènghi» = ‘vieni’. 297 «’n antr’anno» ‘l’anno venturo’. 298 A Sigillo, circolava un tempo la credenza, secondo la quale se una “palma benedetta”, ossia un rametto o una foglia d’ulivo, gettati sul fuoco, iniziavano subito a saltellare, compiendo una sorta di “balletto”, l’uomo che l’aveva buttati avrebbe goduto di lunga vita, mentre sarebbe morto di lì a poco, se gli stessi fossero arsi senza minimamente muoversi. Quella pronunciata dal Diàntene è la formula rituale, immancabilmente impiegata in tale occasione. 299 «Cunìa» = ‘coniglia’. Il coniglio è, in certe culture, considerato animale ctonio e funerario, forse perché si rifugia in sotterranei ed oscuri cunicoli, dal cui comportamento gli deriva il nome latino di cuniculus. Si pensi, ad esempio, ai quattro conigli neri che sono incaricati di portare la bara destinata a Pinocchio, nel romanzo Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. 300 «’L morto è morto, è morta ’na cunìa: ’n me mori’ te, ’n me mori’ te, ànnema mia!» = ‘il morto è morto, è morta una coniglia, ma tu non morirmi, tu non morirmi, anima mia!’. Questa misteriosa formula, registrata alcuni decenni or sono, quando, sia pure assai sporadicamente, era ancora pronunciata dai più anziani abitanti dell’area oggi tutelata dall’istituzione del Parco Naturale Regionale del Monte Cucco pare oggi irrimediabilmente dimenticata. Risulta, in particolare, assai difficile attribuire un qualunque significato all’accostamento concettuale, certamente di natura simbolica, tra la morte della coniglia e quella dell’uomo e, forse, ancora di più, alla metafora della coniglia morta quale simbolo dell’anima irrimediabilmente dannata. 301 «[…] Ce tira ’na sassata, ne fa cade ’na stratàta» = ‘ci tira una sassata, facendone cadere uno strato’. I contadini erano spesso soliti ricorrere a quest’operazione per far cadere le pere mature dagli alberi del padrone. La stratàta è un ‘largo e spesso strato’. 302 «Moscatèllo» = ‘vitigno pregiato’. 303 «Se capa» = ‘si sceglie’. 304 «Graspijóne» = ‘grosso grappolo privo di chicchi’. 305 Antica filastrocca popolare sul carattere ed il comportamento dei contadini di un tempo, spesso costretti, per sbarcare il lunario, ad aguzzare l’ingegno e a sottrarre qualcosa dalla “presa rapace delle unghie del padrone sfruttatore”. 306 Questa storia vera capitò, molti decenni or sono, a tre agricoltori di Costacciaro, andati a radunare le loro vacche, sorprese da una violenta quanto inattesa nevicata. La cavità, una delle tante che si aprono sul Monte Cucco, non è a tutt’oggi stata ritrovata. I protagonisti della vicenda, ad eccezione di Alfrèdo Martella, sono tutti morti. 307 ‘Freddo intenso’. 308 ‘Località del Monte Cucco’. 309 «Buga» è il generico termine locale, impiegato per designare ‘ogni grotta’. 310 I termini orìvo o rivo indicano ‘l’estremità, il limite di qualcosa’, specie di emergenze geografiche (“orìvo de balza”, ecc.). 311 «Bòjja», agg., = ‘furbo, smaliziato, astuto’. 312 «M’ancenderà ’l culo» = ‘mi darà bruciore al sedere’, vale a dire: ‘non mi farà assolutamente nulla’). 313 «Cava la Velia le pecore dal fosso» = l’espressione «Cava le pecore […]» può approssivamente tradursi con la perifrasi ‘condurre le pecore fuori della vallata, facendole risalire lungo i fianchi del pendio torrentizio’. 314 «M’arcòrdo» = ‘mi ricordo’. 315 «L’Annetta» = Anna Bucciarelli, la saggia donna di Villa Col de’ Canali, ispiratrice, proprio con la narrazione di questa storia vera, di tutto il presente scritto. 316 «La zièsa» = ‘sua zia’ (forma linguistica propria dei dialetti centromeridionali, definita “possessivo enclitico”). 317 «Pia» = nome di pura fantasia, che vuole però sottolineare la reale, fervente religiosità popolare della donna. 318 «Co’ ’n cagnolétto» = ‘con un cagnolino’. 319 «Quann’ècco ’n animale giù La Fida» = ‘quand’ecco arrivare un animale selvatico in località La Fida di Monte Cucco, nella quale la donna era stata mandata, da lungo tempo, a pascere il gregge e, nella quale, passava la notte, rifugiata in una capanna di ginestre, con la sola compagnia di un piccolo ma coraggioso cane. 320 «Comme lanciò ’nte l’aria nn urlo cupo» = ‘non appena prese ad ululare in maniera sinistra’. 321 «Lia» = ‘lei’. 322 «S’acòrse» = ‘si rese conto’. 323 «Fa apéna ’n tempo a bocca’ ’nte la capanna» = ‘fa appena in tempo a rifugiarsi nella capanna’. 324 «Mentre che essa era drento che pregava, fòri era ’l cane che da ’l lupo jje ’bajjàva.» = ‘mentre lei se ne stava rinchiusa nella capanna a pregare, il suo cane rimaneva fuori ad abbaiare al lupo per tenerlo lontano dalla padrona e dal gregge’. 325 «Da sbatte ’nsième i du’ zòcchi che ci avéa» = ‘di sbattere, uno contro l’altro, i suoi zoccoli, nell’intento di fare rumore e spaventare così il lupo, fino al punto di farlo fuggire con la coda fra le zampe’. Secondo molti racconti di fonte orale, al tempo in cui, sulle nostre montagne, vi era una grande quantità di lupi, la pratica di sbattere uno contro l’altro gli zoccoli di legno di salice o , alla peggio, due pezzi di legna secca, doveva essere molto diffusa fra i nostri pastori, al tempo in cui vi era una grande quantità di lupi. Lo strepito, emesso da questi improvvisati “strumenti di dissuasione”, pare fosse sufficiente a mettere in fuga anche il più famelico dei lupi. 326 «Comme che ’l lupo sente ’sto rimore, comm’a l’inverno, jje pìa ’n grande trimóre» = ‘non appena il lupo sente il forte rumore emesso dagli zoccoli fatti sbattere insieme, viene preso da un grande tremito, in tutto simile a quello che avverte, ogni inverno, a causa del gran freddo che lo raggela’. 327 «Lascia l’agnella, ch’apéna éva ’dentato, e chiappa, via, cornuto e bastonato.» = ‘lascia cadere, sana e salva, l’agnella che aveva appena addentato e fugge via, cornuto e bastonato’. 328 «Scappa da la capanna e ’l Bòn Pastore, essa pìa a ringrazia’ con tutto ’l còre.» = ‘esce dalla capanna e si mette subito a dire una preghiera di ringraziamento a Gesù Cristo, che, da Buon Pastore per eccellenza, qual è, ha voluto salvare lei, un’umile, ma “pia”, pastorella e l’intero suo gregge’. 329 «De la Schiggia, davanti al camposanto, de Paterniano sott’al lòco santo, ce sta ’nna tomba, che pare ’n sedile, fatta, de fiume, in bigia pietra vile, drent’a la tomba i òssi c’èn de ’nn animale, che più de tutti quanti al mondo vale. Era ’n cagnòlo chiamato “Fido Po”, che, finché visse, ’l patrone suo aiutò, ’l patrone suo, ch’era nn infelice, ’sto bravo cane rese assai felice. De fatti, lue, jje giva a fa la spesa, con ’m bel po’ poco, facèndojje gran resa. Quanno che mòrse, ’l paese, sconsolato, vòlse che sempre fosse ricordato, e, su la pietra, fosse scritto, a graffio, un corto, ma bellissimo epitaffio: “Qui sta sepolto il cane “Fido Po”, che fu da tutti amato e tutti amò”. ’Sta scritta, ade’, ’n se pòle legge piùne, l’acqua, da lì, corre da ’n su e da ’n giùne». ‘Di fronte al cimitero di Scheggia, che è situato sotto all’antichissima pieve rurale di San Paterniano, risalente al secolo XI, è posta una strana tomba a forma di sedile, ricavata da una pietra arenaria, di poco pregio, estratta dal letto del Torrente Sentino. Dentro di essa, vi sono i resti di uno degli animali maggiormente utili all’uomo. Ci sono, infatti, le ossa di un cagnolo, chiamato “Fido Po”, che passò la vita ad aiutare il suo padrone; il padrone suo, che era disabile, fu reso assai felice dai servigi offertigli gratuitamente da quest’animale. Infatti, il cane andava a fargli la spesa, rendendogli, in questo modo, un grande e continuo servizio in cambio di una modesta ciotola di cibo. Quando il cane morì, tutta la popolazione di Scheggia rimase sconsolata e decise che l’animale doveva essere sepolto onorevolmente e ricordato da un’epigrafe incisa («scritto, a graffio») sulla pietra tombale, con il seguente epitaffio: «Qui sta sepolto il cane “Fido Po”, che fu da tutti amato e tutti amò». Ora, a causa dell’erosione, questa scritta è stata completamente consunta e non si può più leggere. Da questo luogo, tuttavia, che costituisce lo spartiacque tra il versante adriatico e quello tirrenico della Penisola, l’acqua piovana continua liberamente a scorrere e verso una direzione e verso l’altra’. «’Sta scritta, ade’, ’n se pòle legge piùne, l’acqua, da lì, corre da ’n su e da ’n giùne». Con quest’ultima frase, il Diàntene vuole ribadire il fatto che nonostante il dolore e la costernazione, provacati da ogni morte, specie da quella che colpisce le persone e gli esseri più cari a noi stessi, la vita, come l’acqua di un fiume, deve continuare a seguire il suo incessante corso naturale, che ora la indirizza in un luogo, ora nell’altro (e, come fa l’acqua, così debbono fare anche le lacrime di un pianto dirotto, che è bene lasciare scorrere via, affinché defluiscano, placate, verso il gran mare della consolazione).330 «A San Giròllimo sott’a ’l grande sasso» = ‘sotto all’anticamente detta: “Grande Spelonca di san Girolamo”. 331 Secondo il frate francescano, padre Bonaventura Bartolomasi, agiografo del beato Tomasso da Costacciaro, il beato Forte, della nobile famiglia eugubina dei Gabrielli, sarebbe stato contemporaneo del beato costacciarolo (XIII-XIV secolo). Il frate fonda tale affermazione su una delle prime laude dedicate al Beato, composizione agiografica in versi, realizzata da un anonimo scrittore, tra i secoli XIV e XV. La maggior parte degli storici (lo Jacobilli, in primis) ritengono, invece, che il beato Forte Gabrielli vivesse nel secolo XI, conducendo vita anacoretica al romitorio del Monte di Santa Maria, presso Scheggia. Alla voce isolata del Bartolomasi, si unisce il citato racconto di tradizione orale popolare, che in questo presunto priore dell’eremo di Monte Cucco (pare che, con tale nome, non vi sia stato alcun priore all’eremo) ed «Òmo santo» adombra la figura storica del Beato eugubino, le cui spoglie mortali riposano nella cattedrale di Gubbio. 332 Secondo questa storia vera, tramandata oralmente da alcuni anziani di Costa San Savino, un tempo, un uomo di nome Tomasso (in cui forse si cela il beato Tomasso da Costa San Savino), si recò all’Eremo di Monte Cucco, il cui priore era un uomo considerato santo, di nome Forte (dietro al quale si nasconde, con tutta probabilità, la figura del beato Forte Gabrielli di Gubbio, che alcune leggende vogliono compagno d’eremitaggio del beato Tomasso), per scongiurarlo di allontanare la piaga dei molti lupi, che arrecavano gravissimi danni agli allevatori di bestiame. Il priore si mostrò subito pronto ad operare quest’esorcismo, ma disse che, ovunque avesse mandato i lupi del Monte Cucco, questi avrebbero continuato a mietere vittime nel numero delle greggi e degli armenti delle montagne circonvicine. Dopo un buon momento di smarrimento, al pastore Tomasso venne in mente un’idea geniale: perché non dirottare i lupi nel Municipio di Costacciaro al momento del consiglio comunale? Là, sicuramente, non avrebbero arrecato alcun danno, ma, anzi, divorando tutti i membri del consiglio, apportato una grande utilità all’intera collettività paesana.
‘Il defunto Tommaso di Costa San Savino, si recò, un bel giorno, sotto la grande rupe dove sorge l’Eremo di San Girolamo di Monte Cucco, al fine di supplicare il priore, padre Forte, che tutti ed ognuno tenevano in grande considerazione, di esorcizzare la presenza dei lupi, che portavano la morte al bestiame pascolante, quella morte che i lupi stavano infliggendo alle bestie anche nel momento stesso in cui il pastore ed il santo priore cominciavano a parlare. Rivolgendosi al priore, Tommaso parlò in questi termini: «Voi che siete certamente un uomo santo, fate in modo di esorcizzare la minaccia di questi lupi…» «Io volentieri esorcizzerò la presenza di questi lupi -disse con affanno- ma non ho idea di dove mandarli, una volta che li abbia definitivamente allontanati di qui. Ovunque io li mandassi, infatti, essi continuerebbero a fare gli stessi danni che arrecano in questo luogo. Sono fin troppe le bestie che hanno sgozzato.».Al buon Tommaso venne, finalmente, un’idea, e la confidò subito al priore: «C’è un unico posto –disse- dove essi non possono fare danni, ma solo rendere un utile, qualora sgozzassero… tutti coloro, o straordinario guadagno, che lavorano nel Municipio di Costacciaro…’.
333 «Schiòppo» = ‘fucile’ (letteralmente: ‘scoppio’, per il rumore che emette durante lo sparo). 334 Stando a questo racconto vero di fonte orale, un giorno, nella Campagna Romana, un gruppo di falciatori, originari dei paesi del massiccio del Monte Cucco, al momento del pranzo furono sconvolti dalla spavalderia di un uomo di poco senno, il quale, imbracciata la doppietta, si mise a sparare forsennatamente per aria. Uno dei più coscienziosi del gruppo, Salvatore Sagràfena di Villa Col de’ Canali, soprannominato “Salvatore de Mocarìno”, un uomo morto in odore di santità, si parò dinanzi al dissennato sparatore, annunciandogli che avrebbe, di lì a poco, impedito, grazie all’intercessione della Santissima Trinità, alla polvere ed al piombo, presenti all’interno delle canne del suo fucile, di esplodere. L’uomo, per nulla intimorito, avrebbe allora ricaricato il fucile e si sarebbe di nuovo accinto a sparare, quando il pio Salvatore, invocando, con una precisa formula, l’intervento della Santissima Trinità, avrebbe realmente impedito al fucile di esplodere i suoi due colpi. L’uomo, sbigottito da un simile portento, avrebbe più volte tentato di premere i due grilletti, ma senza alcun esito, finché Salvatore, decidendosi di farlo nuovamente sparare, non si sarebbe rivolto di nuovo al fucile, comandandogli di fare ciò che prima gli aveva ordinato di non fare.
‘Una grossa squadra di falciatori stava pranzando e riposando nella Campagna Romana, quando d’improvviso, uno “dà fuori di testa”: imbraccia la doppietta e si mette ad esplodere due colpi per aria, afferra il fucile e gli fa fare una gran fiammata. Quand’ecco venire, verso quest’uomo sciocco, Salvatore Sagràfena de Mocarìno. Guardando in faccia lo sparatore, e sembrando sfotterlo, Mocarìno gli dice: «Il tuo fucile non esploderà più alcun colpo!». L’uomo, per tutta risposta, ricarica il suo “tizzone di fuoco”, nella convinzione che sparare sia, per lui, facile come giocare. Ma, all’improvviso, quando ormai stava scendendo la sera, Mocarìno si mette a recitare una preghiera. Dopo essersi segnato, Salvatore prende a rivolgersi all’indirizzo del fucile, con questa formula d’invocazione: «In nome della Santissima Trinità, per un momento non fare fuoco! Polvere e piombo restate per un momento immobili nella canna, allo stesso modo in cui Gesù Cristo si soffermava nella casa di sant’Anna». Lo sparatore, credendo che l’uomo stia farneticando, prova di scatto a risparare, ma, per quanto prema entrambi i grilletti della doppietta, più nessun colpo viene esploso dal fucile. Allora, poiché questo resta ammutolito, riprende la parola quello di Mocarìno, da tutti considerato un perfetto Santo (non è casuale, nel contesto di questa storia, neppure il nome proprio di Salvatore. Egli è un salvatore perché evita il peggio al gruppo dei falciatori, ma anche perché, da uomo pio e santo, qual è, sembra un modello perfetto del Salvatore per eccellenza, che egli nomina, invocandolo: Gesù Cristo), che, in un battibaleno, ordina perentoriamente al fucile: «Adesso fai fuoco!». Salvatore, in un solo istante, per intervento divino, fa, infine, sì che il fucile spari entrambi i suoi colpi.’ 335 ‘C’era la guerra e La Caffétta, una brava donna di Costacciaro, ritornava, un giorno, figli miei, da Pascelupo, correndo il grave rischio di essere divorata dal lupo. Valicando tutte le montagne, andava da Costacciaro a Pascelupo, per, poi, fare ritorno a casa. Faceva su e giù dal monte, a causa del figlio “Gigetto”, perché costui non avesse più a patire la fame. C’era la guerra, ed era d’inverno, ma la donna non avrebbe mai pensato che stesse per scatenarsi l’inferno. Lungo la strada c’era anche la neve ad ostacolare la sua marcia e, dalle fonti, a causa del gelo, non scaturiva neppure una goccia d’acqua per potersi dissetare. Nel mezzo del cammino, con sua grande paura, ecco, a un tratto, rabbuiarsi il cielo: all’improvviso ella, a causa della grande nebbia che si era levata e che impediva di vedere anche a lei, si ritrova fuori del sentiero battuto. Si smarrisce, vagando come un’anima in pena, e, intanto, il giorno, con la velocità del lampo, cede il passo alla notte. A causa della grande paura che l’assale, paura di non poter mai più rivedere i cari muri della sua casa ed i suoi affetti, la donna perde, in poco tempo, tutti i capelli. Ella, piangendo forte, prega e prega ancora, tanto e così bene che le compare accanto un uccello. Questo, standole davanti, cammina a saltelli, e poi, guardandola, pare dirle: “Avanti!”. Sia stato un corvo, oppure una coturnice, la sua anima la consiglia di seguire l’animale. Poi, all’improvviso, fatto un bel tratto di strada, l’uccello sparisce completamente dalla vista della donna. Tanto cammino hanno fatto insieme, passo dopo passo, che Annunziata si ritrova nella località Il Sasso. Scomparso l’uccello, lei vede, finalmente, le luci di Costacciaro in fondo alla valle. Tanto lei ha camminato, anche spiritualmente, che vede ardere, splendenti, i Lumi della sua Fede, ravvivati dalla Grazia appena ricevuta. La Caffétta, sentendosi ormai salva, prende a ringraziare quell’anima beata. Molti sostengono che l’uccello scomparso altro non incarnasse che l’anima del marito defunto. Io ho narrato a voi questa storia prodigiosa, per farvi sapere che questa donna è ormai in Paradiso. Ella preparava pozioni a base d’iperico: Iddio le dia mille benedizioni! Ella preparava un unguento fatto d’olio d’iperico: ora riluce, come un astro, nel ristretto firmamento delle Anime Salve’. Questo racconto, tramandato oralmente dalla sua protagonista, Annunziata Cianfichi di Costacciaro, una vecchia, saggia e pia donna, morta ultranovantenne, e considerata, a buon diritto, un vero e proprio personaggio costacciarolo, è conosciutissimo, con diverse varianti formali, in buona parte dell’area del Monte Cucco. La donna si recava spesso, da sola e a piedi, a portare cibo ed abiti di ricambio a suo figlio, il defunto maestro Luigi Galli, che, per sfuggire all’arruolamento forzato da parte di fascisti e Tedeschi, durante l’ultimo conflitto mondiale, si era rifugiato presso una famiglia di Pascelupo. Annunziata, a quanto si sa, era soprannominata Caffétta, perché aveva il mento leggermente prognato. Il termine dialettale Caffétta, secondo una paraetimologia popolare, costituirebbe, infatti, una variante fonetica della voce popolare ciàffa/ciaffétta, ‘dal viso prognato’. Riguardo alla sua “calvizie da paura”, molti affermano esserne stata prova sufficiente il fatto che Annunziata non si facesse mai vedere senza il fazzoletto in testa. La donna era una grandissima depositaria della cultura tradizionale locale e conosceva molte ricette di farmacopea popolare, tra le quali si ricorda quella che aveva alla base la pianta dell’iperico (Hypericum perforatum), il cui olio essenziale trovava impiego contro i reumatismi ed i dolori muscolari. Tale comune pianta erbacea era dialettalmente detta ’perico, o erba del malocchio, a causa delle sue presunte virtù apotropaiche nei confronti di fatture e malefici in generale. 336 ‘La domenica mattina, andavano sul monte di buonora, prima del sorgere del sole, ci fosse neve oppure freddo intenso, per prendere la messa. Una squadra di abitanti di Costa San Savino, con passo lesto, passava attraverso La Strada dei Romiti. Dopo che tutti avevano valicato Passi Nvalcatóro, tiravano diritti per la loro meta, che era il luogo ove la leggenda voleva che il dottore della Chiesa, san Girolamo, avesse “fatto penitenza”, che era l’eremo (“convento”) di San Girolamo, nel quale i bianchi eremiti della Congregazione Camaldolese di Montecorona vivevano ripieni di gioia, posto in cui i monaci dall’abito bianco, chiamati camaldolesi (“camandolesi”), facevano entrare le genti dei paesi circonvicini. Presa la messa, iniziava lo scambio dei doni. I Costanti donavano al Priore prodotti agricoli, ricevendone in contraccambio, quasi a compensare le sofferenze causate dalla lunga escursione, un filoncino di pane bianco: “Per prendere la messa abbiamo compiuto l’ascensione di questo monte, dateci, per favore, un tozzo di pane bianco…”. Nel poter vedere quel tozzo di pane bianco, si rallegrava anche il viso più stanco. Il pane bianco non l’avevano mai assaggiato, e, poi, mangiarne in tempo di carestia, era un po’ come mangiare l’ostia non ancora consacrata che si conserva in sacrestia, era come assistere al miracolo della treccia pietrificata, operato da Sant’Agnese: “Mai, più nel tempo della carestia, mai più noi avremo a mangiare l’amaro pane di veccia!…”.’ Tale storia vera avveniva all’inizio di questo secolo. Un gruppo di persone di Costa San Savino si recava, periodicamente, a piedi, alla messa all’eremo di Monte Cucco, passando per la Strada dei Romiti (un antichissimo tracciato pastorale, soprastante Costa San Savino, utilizzato, come si evince dal nome, anche dagli eremiti dell’eremo di Monte Cucco, fra cui pure il beato Tomasso), il Passi ’Nvalcatóro (‘passo valicatoio’) e valicando tutte le restanti montagne. Presa la messa, i “Costanti” scambiavano doni in natura con gli eremiti, donando loro ortaggi od altri prodotti agricoli e ricevendo in cambio una pagnotta di pane bianco o un po’ di castagne del locale castagneto. Era “Tempo de carestia” quando avveniva quest’episodio storico e il poter mangiare pane bianco, cosa affatto inusitata presso i contadini e pastori dei paesi pedeappenninici, equivaleva al miracolo che operò Sant’Agnese nel suo luogo di ritiro sul Monte Cucco, dove, in un vasto androne, ella volle che una delle sue trecce, tagliate in segno di penitenza ed umiltà, restasse, pietrificata, a pendere dal soffitto della grotta, a mo’ di stalattite. I Costanti, ricevuto in dono il pane fanno un augurio: “Mai più, in tempo di carestia, noi mangeremo l’amaro pane fatto con la veccia”. In periodi di grande carestia, il pane fatto con la veccia, o addirittura con la farina della “ghianda castagnola”, surrogava spesso il pane nero di crusca o di granoturco. 337 «Era la fine del Milleottocento, quando sucèsse quello che rammento. A tròva i vecchi sua era gita, ma, troppo tardi, da Coldepèccio argìta. Da Coldepèccio a Campetèlla arnìva, benànche, forte, la strada, su, sallìva, quanno t’atàcca ’na grande nenguetùra, che la ’nteghìsce, tutta, de paura, sui prati giónta, essa, de San Gìo, dice, fra lia: “Mo’, che strada pìo?” Ma, ’nvéce, da pia’ giù per Campetèlla, sbajjàta, segue, del distin, la stèlla, e ’tacca a scènde giù pper una forca, che drento bocca, dî Fossi, ’nte La Croce. Di qui, de Cristo, la croce lia t’abràccia, che dî stradelli jje fa perde la traccia. Così, lia mòrse, tra i trìbboli ed i stenti, e ’l pianto, forte, de tutti i parenti. ’L fosso, do’ mòrse questa donna bona, chiamato vène Fossi la Larióna, mo’, ’l fosso, do’ spirò questa matrona, tutti jje dìcheno ’L Fosso de la Larióna. ’Sta pòra donna se chiamava Lara, ’nte ’l còre ade’, ’l Signor, la tène cara». = ‘Era la fine del secolo XIX, quando avvenne l’episodio che sto per rammentare. Una donna, si era recata da Campitello a Coldipèccio, per andare a trovare i propri genitori, ma era ripartita a sera troppo tarda. Ritornava, così, con passo gagliardo, per la strada, che, scavalcando i monti, unisce i due centri pedeappenninici, siti al piede degli opposti versanti montani, quando, sul far della notte, viene sorpresa ed investita da un’improvvisa quanto furiosa bufera di neve («nenguetùra», s.f. Letteralmente: ‘nevicatura’), che la fa raggelare dal freddo e dalla paura. Giunta così, in queste condizioni proibitive, sui Prati di San Giglio, non si raccapezza più su quale sentiero debba imboccare per ritornare a Campitèllo; cosicché, un destino cinico e baro, vuole che ella segua la sua cattiva stella ed inizi a discendere all’interno di una valle torrentizia («forca», s.f. Letteralmente: ‘valle a V’, i cui fianchi possono richiamare alla mente le punte di un forcone da fieno), fino a raggiungere la sperduta località Croce dei Fossi. Qui, malauguratamente giunta, e persa ogni traccia del sentiero, pare che il destino le riservi soltanto d’abbracciare la croce che aveva già portato il Cristo sul Gòlgota. Allora, ella si lascia, piano piano, morire d’ipotermia, fra tribolazioni e stenti indicibili, ed il pianto dirotto di tutti quanti i suoi parenti. Il fossato, nel quale questa donna, brava e buona, perse la vita, prende oggi il nome di Fossi Lariona; ora, al fosso dove spirò questa donna robusta e coraggiosa, proprio a causa di questo luttuoso evento, danno il nome di Fosso de la Lariona. Questa donna che, in vita, ebbe il nome di Lara, ora, il Signore, se la tiene cara, accanto al proprio cuore benedetto’.
338 Molti sono i racconti di paurose piene del torrente Lucària, popolarmente conosciuto con il nome di Fosso Lucaràio o Lucoràio. L’idrotoponimo, sotto la forma Rucaraio, risulta già attestato dalle Carte di Fonte Avellana nell’anno 1239. Si tratta di un modesto corso d’acqua (ma con un bacino idrografico relativamente grande e costituito dalla formazione geologica Marnoso-arenacea, di natura semimpermeabile), a règime torrentizio, che nasce dalle colline eugubine, nei pressi di Torre dei Calzolari. Il corso d’acqua è un affluente di destra del Chiascio, nel quale si getta non lontano dal vocabolo rurale costacciarolo Il Tagiano. Si racconta, ad esempio, che, il 31 luglio 1959, durante una di queste “pinàre”, causata da un furioso temporale estivo, la corrente d’acqua “se portò via ’na donna”, la quale, nella circostanza, perse la vita. La donna in questione, di nome Elisa Pierotti, era intenta a lavare i panni sul greto del torrente, in compagnia della figlia, quando fu colta dall’onda di piena, che la trascino con sé, lungo il Chiascio, fino a Colpalombo. La figlia di costei, ancora bambina, riuscì a salvarsi aggrappandosi al ramo di una pianta che vegetava lungo le sponde del Fosso Lucaràio.
‘Ora vi racconto la triste storia di una lavandaia che fu trascinata via dalla piena. Questa grande disgrazia ebbe luogo sopra le onde del Fosso Lucaràio. E ciò avvenne nel luglio dell’anno 1959, quando piovve come mai era avvenuto prima d’allora. La donna lavava la propria sottana in compagnia della figlia piccola, quando, improvvisamente, ecco scatenarsi («se sgavìna» = letteralmente: ‘si scatena’) un fortunale; e tuona e lampeggia e piove così forte, che l’acqua colma interamente il letto del torrente; e fa scorrere giù una livida onda di piena («nero, ’n cavaróne» = ‘un cavallone nero’: il cavallo nero, che corre in direzione della donna, simboleggia la morte che sta per rapirla), che sembra un grande leone inferocito. La povera donna, dalla carnagione chiara, rapita da questa corrente scura, sembra quasi una colomba che si stia involando. L’acqua torbida la rotola, e la trascina, mentre, vedendola, la povera figlia si abbandona ad un pianto dirotto. «La mamma mia, la mamma mia che amo!…» esclama, intanto, la bambina, che, per salvarsi, si era aggrappata al ramo di una pianta delle sponde del torrente. Frattanto, la piena del Fosso Lucaràio scaraventa a destra e a manca il corpo della donna, allo stesso modo in cui un seminatore lancia manciate di seme nel campo. L’acqua, che pesa più del piombo, imbibisce («’ngùrbia») completamente i panni della donna, mentre, “confluita”, con le acque del fosso, nel Chiascio, ella viene trasportata fino a Colpalombo. È, finalmente, un pescatore, dopo ben tre giorni di dolorose ricerche da parte di parenti, amici e conoscenti, a ritrovarla, completamente denudata dal vorticare delle acque limacciose. Insieme alla famiglia, sembra piangere persino il cielo piovoso, ma, più di ogni altra persona, la donna sarà pianta e rimpianta dalla figlia. Questa storia, intrisa di dolore, capitò ad una donna di nome Elisa. O Pierotti Elisa, maritata ad un Bellucci, tu sembri raccogliere sopra di te tutti i mali del mondo. Elisa mia, sposata con un “Vignaròlo” (soprannome della famiglia Bellucci), sei stata ghermita in volo dal falco della morte. Hai fatto la stessa fine di quell’agnella (l’agnello femmina simboleggia la vittima innocente, sacrificata da un destino malvagio), che la piena del Fosso della Foce di Villa Col de’ Canali trascinò via con sé dalla località montana Il Pezzòlo fino ad un luogo della piana, detto La Canèlla (la tradizione orale popolare di Villa Col de’ Canali vuole che, durante forti piene del Fosso della Foce, alcune pecore, con i loro agnelli, venissero trascinate dalla corrente d’acqua, sino a raggiungere alcune località della sottostante piana agricola). Partendo da Carióne, hai cavalcato in groppa a un cavallone nero. Il rombo della piena ti ha accompagnata dal povero Carióne giù fino a Colpalombo’. 339 «Carióne» = soprannome, d’origine latina, di un agricoltore e nome della località dove faceva la contadina («steva a podere») Elisa Pierotti. 340 ‘Ritornava allegro da un matrimonio, insieme a due suoi amici, dopo essersi tolto ogni sfizio, quando, con il calesse («baroccìno)», trainato dal cavallo, prova a guadare il Torrente Sentino in piena. Egli prova ad attraversarlo per dirigersi in località Lumachèlla a finire in bellezza l’allegra giornata. Ma, poiché il fiume, oltre ad essere in piena è anche molto stretto in quel punto, ecco che fa ribaltare il calesse con sopra il padrone. Per fortuna, i suoi due amici riescono a saltare in tempo dal calesse e il cavallo si libera delle briglie, mettendosi in salvo. L’uomo, invece, annega nel fiume, che lo trascina con sé sino a portarlo a valle di Isola Fossara. Un pescatore lo ritrova scalzo e nudo, poverino, nei pressi del mulino dei Brunetti. Per fortuna, era rimasto impigliato con una ghetta («gambale») al ramo di un pioppo. Il barroccio si ferma in località Le Canepìne di Scheggia, luogo che segnerà la fine di ogni suo altro viaggio. Questa sventura capitò ad un uomo di Scheggia, di nome Aldo Capponi, a causa di un nubifragio con i lampi e con i tuoni. Aldo Capponi, soprannominato “Aldino”, sei stato vittima di un destino disgraziato. Aldo Capponi, soprannominato “de Giujjóne” (cioè ‘di Giulione’), sei stato portato via da una grande alluvione. Il dieci novembre del millenovecentoquarantasei sei volato da questo all’altro mondo. Un matrimonio con i balli e con i suoni si è per te concluso con i lampi e con in tuoni. Per te, questo sposalizio con i balli e con i suoni, finì per diventare un gran supplizio. Mentre passavi sotto un ponte, ad una persona che ti chiedeva come stavi, tu rispondesti, in mezzo all’ondeggiare («andéggio») delle acque: «Bene non sto, ma che non venga il peggio!» (cioè la morte). Poiché tu in terra hai conosciuto il peggio, adesso in Cielo siedi sopra un alto seggio’. 341 «’L millenovecento, era, trentotto, e d’anni lue ce n’éva appen diciotto, pe’ l’are ’l grano e l’orzo te batteva, fin’a quando la forza lo reggeva, ch’era giovine, forte e volenteroso, e del lavoro mai non fu pauroso. Ma ’l due d’aprile, pe’ L’Ìsole passando, il motor del suo trattor fumando, jje tòcca de fermasse a còjje l’acqua, che del Catria, i piedi, e del Mutètte sciacqua. Alóra calla giù per una górga, da che ’l distino vòl che non risorga. Sopre ’na liscia mólla, poverino, scivola e mòre ’fogàto giù ’n mulino, giù ’l Mulino, ’fogàto, de Brunetti, ch’arcòlse i corpi de altri poveretti. Ade’, de te, che ’n c’hai più ’n fil de voce, c’armàne solo ’na data su ’na croce, ’na croce, sol ce resta, ed una data, e ’l pianto eterno de la famìjja amata. Tu te chiamavi Genesio Lupini, ade’ t’arpòsi fra du’ gran cuscini, che sono, celestiali, jj’Appennini. Quando nascesti, tu, era d’istate: Signore, questo fior, Vó, ridestate! Quando moristi, tu, era d’aprile: Signore, accogli quest’anima gentile! Quanno moristi, nasceva primavera: adesso vivi dove mai fa sera!». ‘Correva l’anno 1938, e di anni lui ne aveva appena diciotto, quando si recava a prendere la sua trebbia, alfine di poter, poi, battere in lungo ed in largo il frumento e l’orzo per le aie dell’Umbria e delle Marche, lavorando finché era sostenuto dalle ultime forze, poiché era giovane, forte e volenteroso e non si faceva spaventare mai dalla fatica del lavoro. Una sera, però, passando per la strada che attraversa Isola Fossara («L’Ìsole»), e notando che il motore del suo trattore aveva preso a fumare, è costretto a fermarsi nei pressi del Mulino Brunetti e a calarsi in un gorgo del Sentino per attingere un po’ d’acqua da mettere nel radiatore, a raccogliere, cioè, un poco di quell’acqua (il Torrente Sentino) che sciacqua i piedi dei monti Catria e Motette. Allora, nel calare verso questo gorgo, scivola sopra una placca di roccia liscia e bagnata, cadendo nell’invaso ed annegandovi, affogandosi, cioè, presso il Mulino Brunetti, vicino alla cui diga rimarrà impigliato il corpo di Aldo Capponi. Ora di te, che non hai più nemmeno un filo di voce, resta soltanto una data scritta sopra una croce, una data scritta su di una croce, insieme con l’eterno pianto della tua amata famiglia. Tu, che, in vita, ti chiamavi Genesio Lupini (18 giugno 1920 - 2 aprile 1938), ora ti riposi, finalmente, tra quei due grandi guanciali, che sono i nuovi Appennini del Paradiso. Quando nascesti, era piena estate: o Signore, ridestate questo fiore prematuramente appassito! Quando moristi, era l’inizio d’aprile: Signore, accogli nel Tuo Regno quest’anima gentile! Quando moristi, iniziava la primavera: adesso vivi in quel Beato Paese sul quale non cala mai la sera!’342 «Gran carbonari fùrno jj’Isolani, i Coldepecciani ed i Pascelupani, ma, fra quest’ultimi, quel sommo, fu, senza dubbio, Lupini Colombo. Mesi e mesi lue stéva, in grand’affanno, drento, de pietra, o frasche, un bòn capanno. Grandi e belle carbonare costruiva, comme mai da nisciuno jje riusciva. Adène, che volato sai, Colombo, comme ’l lampo che sempre batte ’l rómbo, verso un altro, e ben più bello, mondo, io so che ce starai sempre giocondo.» = ‘Grandi carbonai furono gli abitanti di Isola Fossara, di Coldipèccio e di Pascelupo, ma, fra questi ultimi, il più grande in assoluto, fu, senza dubbio alcuno, Lupini Colombo. Lui passava mesi e mesi in montagna, vivendo, con gran disagio, all’interno di buone capanne di pietra o di frasche. Costruiva, però, grandi e belle carbonaie, come nessuno, prima e dopo di lui, era mai riuscito a fare. Ora, o Colombo, che, con la velocità con la quale il lampo precede il tuono, sei volato da questo all’altro, e più bel mondo, io so che, là dove ora sei, rimarrai sempre raggiante di felicità.343 «“Tu, co’ la bèschia carca, t’hai ragione, che me fa fa’ la parte del cojjóne, sinnónca, comme pecora a la rete, porta’, pure sul monte, t’évi ’l prete”...» = ‘Tu ti puoi prendere la ragione, che in realtà non hai, perché io mi trovo impedito dall’avere il somaro carico (“bèschia carca”, loc., letteralmente: ‘la bestia carica’) di legna e non posso, in alcun modo, abbandonarlo, poiché mi ritrovo con questa bestia così sovraccarica da farmi fare la parte del fesso, altrimenti (“sinnónca”, avv., letteralmente: ‘sennonché’) ora avresti dovuto fare come una pecora quando è rinchiusa all’interno del proprio stazzo (“comme pecora a la rete”) e ti sarebbe stato necessario portare con te sul monte anche il prete, che, dopo che io t’avessi ammazzato, avrebbe avuto il compito d’impartirti l’estrema unzione’. Questa storia vera si riferisce ad un acceso litigio scoppiato tra due persone (litigio causato da parole di scherno pronunziate da un giovane all’indirizzo di un anziano che stava trasportando legna con il suo somaro), ma fortunatamente non degenerato in rissa e colluttazione per le ragioni sopra indicate, avvenuto molti decenni or sono sul Monte Cucco e tramandato oralmente attraverso le seguenti parole: “T’hai ragione co’ la bèschia carca, ché sinnò évi da fa’ comme le pecore a la rete: anchi sul monte t’èvi da porta’ ’l prete!” 344 L’immagine della donna che precipita è volutamente accostata a quella di una cornacchia che si getti in picchiata giù dalle rupi del Catria per simboleggiare l’improvvisa sventura che precipita in basso tutti i sogni e le speranze di gioventù che Veneranda coltivava segretamente nel suo cuore. 345 «Sciòlta» = questo sostantivo femminile dialettale, mutuato dal lessico minerario popolare, rappresenta, con tutta probabilità, una variante fonetica dell’italiano scólta, ‘sentinella, guardia’, che risale al tardo latino sculca, a sua volta derivato dal gotico skulka, ‘spia’, e confrontabile con il medio inglese skulken, ‘spiare’. 346 ‘Ora vi narro la storia di due sventurate, precipitate («vulticate») dalle rupi di questi monti. Era l’inizio del secolo quando avvenne quest’evento triste. Una di loro cercava le lumache, standosene sul ciglio («pruma») del precipizio, sul Monte Catria, dove cresce ogni sorta d’erba ad eccezione della maligia (che è una specie coltivata), in compagnia di sua zia Luigia Paparelli di Valdorbìa, quand’ecco, che, improvvisamente, a questa ragazza arzilla scivola («sguìlla») un piede («piedi») sul prato bagnato, quando, all’improvviso, si sente partire un piede sul prato tutto imbibito d’acqua. Quando che, all’improvviso, aveva vent’anni, ella sperimentò il peggiore di tutti i danni. Il prato era tutto bagnato ed assai ripido, e, oltretutto, lei portava gli zoccoli. Così, non fa neppure in tempo a dire a o amen, che, come una favilla, vola in mezzo alle fiamme. Un grido si spande acuto nell’aria. È lei che cade dalla Costa Grande del Monte Catria, è lei che vola dal Sètte de Macchia (località del Monte Catria), apparendo come una cornacchia che effettui una picchiata. Un gruppo («sciòlta») di abitanti di Isola Fossara («Isolani») parte repentinamente, con passo lesto ed il cuore nelle mani. La ritrova uno sotto ad un albero di tasso («legno tasso»), nella insenatura rupestre della Val del Sasso. Questa brava ragazza studiava per diventare maestra: finì la propria vita, impigliata ad una ginestra. Fu Checchinello il primo a ritrovarla, un uomo buono e dal corpo snello. Il suo nome era Veneranda, concluse la vita in questa parte delle rupi. Veneranda Masci era il tuo nome, io so per certo che ti sei salvata’. ‘Un giorno, figli miei, una donna di San Felice, attraversata la Forra di Rio Freddo, che rappresenta una sorta di grande cicatrice del Monte Cucco, saliva lenta lenta e stanca stanca, verso il Passo de Grotta Bianca. E aveva già imboccato il sentiero, che finisce su un pratello assai bello, chiamato La Pianella del Papa, a causa del suo essere sempre fresco, verde e ben curato. Però, per raggiungere questo luogo ameno, occorre valicare un passo assai scosceso, conosciuto col nome di Passo de Grotta Bianca, da tutti coloro che, di passarci, non ne vogliono affatto sapere e che, al posto di transitarlo, preferirebbero farsi togliere un dente sano. La donna lo attraversa, ma presole un giramento di testa, cade inciampando nella sottoveste. Non appena urta sulla superficie della roccia, lei scompare come farebbe dell’olio sopra l’acqua quando questo venisse soffiato dalla superficie del liquido sul quale galleggia: non ne rimarrebbe, qua e là, che qualche sparuta macchia. Una squadra di uomini di San Felice è già discesa lungo una fune legata al tronco di un albero, lungo una corda tesa nel grande vuoto. Una massa informe, ridotta alla grandezza di un canestro, è ciò che ritrova un giovanotto di nome Silvestro. Lei vede quanto rimane del suo corpo giacere nella Forra di Rio Freddo, tradizionalmente conosciuta con il nome di Bocca Nera, ella sente, invece, che la sua anima sta entrando in una Sfera di Luce.
347 ‘Un giorno un pastorello di Pascelupo precipitò nel burrone sottostante al sentiero che attraversa quella località della montagna pascelupana che è chiamata Il Beato. Un giorno un pastorello di Pascelupo precipitò nel dirupo del Beato. La sua anima candida, che ancora ben ricordo, fu subito rapita via dal Vento dello Spirito. L’anima sua, che se ne stava sempre vicino al corpo, presto lasciando questo luogo santo, sta ora, felice, sotto la protezione della Madonna. Era lo scorcio del millesettecento quando quest’anima fu portata via dal Vento dello Spirito’. 348 ‘Nell’anno millenovecentocinquantotto, che non fu così pieno di guai come il quarantotto, due monaci camaldolesi, partendo dal monastero di San Pietro di Gubbio, si erano portati a Costacciaro verso mezzogiorno, dove furono ospiti dell’arciprete, poiché erano attesi all’eremo di San Girolamo di Monte Cucco, dove avrebbero dovuto passare la notte per poi ripartirsene, all’alba, alla volta del santuario mariano di Loreto. Appena giunti, però, sulla cima del Col del Nasséto, deviano dal sentiero segnato, e, complice l’oscurità, precipitano dalle balze, come uccelli che volino in picchiata. Uno muore, l’altro si ferisce gravemente, e, a riprenderlo, vanno alcuni uomini, forniti di scale e di corde, con l’intento di strapparlo da una morte oltremodo certa. Questo religioso, benché fosse molto grasso, e, dunque, assai pesante, aveva avuto la fortuna di rimanere appeso, per una manica della tonaca, ad un cespuglio rupestre di tasso. Tutta la notte restò appeso a quest’arbusto, finché, fattasi l’alba, due mietitori d’orzo, appena giunti da Costacciaro per compiere la grande fatica della mietitura, non udirono le sue sempre più flebili urla d’aiuto. Era il ventotto di agosto, quando questa rupe si fece rossa come il mosto per il gran sangue che l’aveva ricoperta. Questo fu il costosissimo pedaggio che i due monaci dovettero pagare per recarsi in pellegrinaggio a Loreto. Il monaco morto fu, con grandi stenti e tribolazioni, tirato fuori dal fondo del burrone con tenace caparbietà da pastori, boscaioli e carbonai. Fu, in seguito, riportato da uno stuolo di persone al suo monastero eugubino, seguito da una lunga processione. Questi monaci precipitarono dalle rupi come quei massi, che, come è ben noto, nel corso degli anni, giunsero a ferire molti monaci dell’eremo. Tanti monaci, infatti, ricevettero ferite, e, uno di loro, che era il priore dell’eremo, restò addirittura ucciso, benché, sentendo rotolare il masso nella sua direzione, tentasse di fuggire via a perdifiato. Questo frate, che, come detto, era priore dell’eremo, ora se ne sta beato nella luce sfolgorante del Signore’. Il priore morto per il masso distaccatosi dalle balze dell’eremo era Ridolfo Oddi Fabrizio Perugino, che lasciò questo mondo nel 1607 (Cfr. Luca Spagnolo, Storia romualdina, o eremitica della Congregazione di Monte Corona, tomo I, Stamparia Dionisiana, 1795, s.v. Descrizione dell’Eremo di M. Cucco). 349 ‘Un giorno, figli miei, una pastora di Villa Col de’ Canali prese a litigare («t’ataccò cagnara») con un lupo magro e fiacco («lupo strónco»: tale locuzione si impiega anche, in maniera metaforica, per indicare ‘un uomo stanco morto’). Il lupo si era scelto («éva arcapàto») dal gregge un agnello e c’era mancato poco che se lo fosse mangiato «e poco manca che ’n se l’êa (êa = éva = avea = aveva) magnato», quand’ecco questa donna, che si trovava in località Il Pezzòlo, fare come il falco che si getta in picchiata e ghermisce a volo la preda. Con le mani, lei prende a trascinare l’agnello per le zampe davanti, mentre il lupo, con tutti quanti i denti, te lo vedi fare quello che fece Pietro, il quale, andato un poco avanti, torno subito indietro. questo povero lupo rimase come Pietro: nudo e con una mano avanti e l’altra dietro a coprire le vergogne. Questa donna coraggiosa si riprende l’agnello e lo rimette nella stalla dell’Oppièllo di Villa Col de’ Canali. Questa donna si riporta a casa l’agnello e il giorno, che era cominciato brutto, lo fa finire un po’ più bello’. La tradizione orale popolare di Villa Col de’ Canali vuole che, in un tempo imprecisato, in cui la montagna era infestata da un gran numero di lupi, le pastore fossero spesso costrette a contendersi le pecore e gli agnelli con i lupi, le une tirandoli da una parte, gli altri, dall’altra. 350 «“Tira vento e tramontana, da le donne jje da pena e jje l’alza la sotàna, tira vento e tramontana”. Giù La Fonda, un di’, dei Martinèlli, dove che i venti te fòn tòrge i budelli, quel brutto posto dove che, momènti, te s’àncolleno tutti quanti i venti, ’na donna, del primo Novecento, portata fu guasi via dal vento. ’Sta pòra donna, ch’era de la Villa, giovine secca e non poco arzilla, stretto sul petto portava ’n corpetto, che féa, da jj’òmini, un gran bell’effetto, ma, da la vita in giù, c’éva ’na gonna, gonfia e larga ché l’éa pòrta su’ nonna. Quann’ecco, che, grossa, ’na sventata, da la tramontana, sù, ’nnalzata, jje bócca sotto, bianca, da la sotàna, doventando gran sbòtto de buriàna, jje gonfia sùbbito quel suo gran gonnone, e, ’nn’aria, jje fa fa’ ’l volo de ’l pallone. Urla ’sta donna, che pare ’nna gaggia, benanche fusse benacorta e saggia: ùcca credendo da pati’ le cadute, mèntre la gonna jje fa paracadute. Se posa a terra più lieve de ’nna piuma, mèntre, ridendo, ’l filanzato fuma. Questo sucèsse ad una donna ’sciutta, per gnènte, proprio per gnènte affatto, brutta. Sia stato ’l vero, o pure ’nna patata, se disse che quel vento l’éa ’mprenata. Altri dìcheno, ’nvece, che fu Baldo, quel giovinotto che jje déce ’l salto». = ‘Tira lo scirocco («vento», s.m.) e la tramontana, dando pena alle donne ed alzando loro la sottana, tira lo scirocco e la tramontana (antico scioglilingua popolare). Un giorno, in fondo alla discesa della località I Martinelli di Villa Col de’ Canali, laddove i venti ti fanno davvero torcere le budella, quel brutto luogo, nel quale quasi tutti i venti ti sollevano in aria, come prendendoti fra le braccia, una donna dei primi anni del Novecento, per poco non fu portata via dal vento. Questa povera donna, che era un’abitante di Villa Col de’ Canali, giovane, magra e molto arzilla, portava stretto sul petto un bel corpetto, che faceva un gran bell’effetto agli uomini che lo guardavano, ma, dalla vita in giù, vestiva una gonna, gonfia e larga, poiché l’aveva già indossata sua nonna.Quand’ecco che un’impetuosa raffica di vento, generata ed innalzata dal vento di tramontana, trasformandosi in una grande folata di “buriana” (< burian, ‘vento gelido, proveniente delle steppe russo-siberiane’), le penetra sotto la bianca sottana e le gonfia immediatamente quel suo gran gonnone, facendole fare in aria il volo che fa il pallone aerostatico. Questa donna emette, allora, un tale urlo che la fa rassomigliare ad una garrula ghiandaia, benché lei fosse abitualmente molto accorta e saggia: così lancia alte grida, temendo le imminenti conseguenze delle cadute, mentre la gonna la salva da questo incombente pericolo, funzionandole da perfetto paracadute. Ella si posa, infatti, a terra più lieve di una piuma, mentre il suo fidanzato ride e fuma. Questo episodio curioso capitò ad una donna magra, ma per nulla, proprio per null’affatto brutta. Sia, quanto riporto, la verità o una menzogna («patata», s.m.), si ebbe a dire che quel vento aveva messo incinta («’mprenata», agg. e part. pass., denominale degli aggettivi e sostantivi dialettali prèna/ prèina, ‘gravida, incinta’, che, a loro volta, risalgono all’aggettivo latino plena, ‘piena, colma’) la ragazza (una credenza popolare, ormai abbandonata, voleva che a mettere incinta le donne fosse il vento che penetrava sotto le loro gonne. Il vento avrebbe, inoltre, avuto la capacità di fecondare molti alberi, come la quercia, che sarebbe stata resa fertile dalla tramontana). Altri affermano, invece, che quel giovane “che le dette il salto” (l’espressione dialettale da’ ’l salto indica il tipico atto sessuale praticato dai tori, che, così facendo, riescono a “’ntora’”, vale a dire a ‘penetrare e fecondare le vacche’) altro non fosse che il suo fidanzato Ubaldo.
351 «’L mentùi» = ‘lo mentui, lo nomini’ (forma dialettale desueta di Villa Col de’ Canali). 352«Rócca» = ‘roccolo di legno, utilizzato, un tempo, per raggomitolare la lana. 353 «Loréta»: nome personale femminile, un tempo piuttosto diffuso nell’area del Monte Cucco, ma, oggi, in pieno, inesorabile regresso. 354 Antico detto delle filatrici di lana di Villa Col de’ Canali, ricordato dal Dottor Ivo Puletti, di anni 86, che lo sentì da bambino. Registrato da Euro Puletti il giorno 10 novembre 2001. Interessante il plurale “déta” per dita, forse semplicemente piegato alle esigenze della rima. 355 Il Diàntene allude ad Alfrèdo Marini e Alfrèdo Martella, due saggi e sapienti contadini del territorio di Costacciaro, grandi per le straordinarie doti umane e professionali. 356 «Fiorenzo» = Fiorenzo Coccetti di Pascelupo, grande comunicatore d’umanità, profondo conoscitore della montagna e cacciatore leggendario. 357 «C’è stato Alfrèdo, anzi ce n’ènno due, po’ c’è Fiorenzo, ch’ho amato pure lue. A tutti quanti jjo scritto ’nna poesia: l’ànnima loro è ormai l’ànnima mia.» = ‘C’è stato un Alfredo, anzi ce ne sono due, poi c’è Fiorenzo, ché ho amato pure lui. A tutti quanti ho scritto una poesia: la loro anima è ormai la mia anima. 358 «Sopre» = ‘sopra, sull’argomento’. 359 «Sun» = ‘su’. 360 «Sdopàna» = ‘dipana’. 361 «Do’» = ‘dove, nel quale’. 362 «Se bùtteno» = ‘Si riversano’. 363 «’Vuticchiàta» = ‘acciambellata’. 364 «A sdopanàsse» = ‘che si srotoli’. 365 «Afónda» = ‘affonda’. 366 «Abottàto» = ‘rigonfiato’. 367 «Dà fòri» = ‘straripa’. 368 «Pùjja» = ‘Puglia’. 369 «Càlla» = ‘scende’. 370 «Che tutti a arcordàmmeli» ‘che a ricordarli tutti …’ 371 «Pàjja» = ‘Paglia’. 372 «M’abbarbàjja» = ‘mi abbaglia’. 373 «Ch’arsenti’ ’sto nome alle mie radiche artórno» = ‘che risentendo questo nome, ritorno alle mie radici’. 374 «’L Téscio, che la fonda sua valle tesse al dritto e al rovescio» = ‘il Téscio, torrente di Assisi, che con i suoi meandri sembra quasi tessere la sua valle come farebbe una donna che, con l’uncinetto, ordisse la trama di una tela al dritto e al rovescio’. 375 «Tèbbro» = ‘Tebro, Tevere’. 376«Vèrde ombrella» = ‘la chioma di un albero ripariale’. 377 «Ninnato» = ‘cullato’. 378 San Secondo fu martirizzato presso Amelia (a. 284) ed ucciso per annegamento nelle acque del Tevere, al tempo di Massimiano. 379 «S’aridesta» = ‘si risveglia’. 380 «Solióne» = ‘solleone’. 381 «Pécchia» = ‘tafano’ (latino apicula, ‘piccola ape’). 382 «[…] Mòrse da santo fino» = ‘morì in perfetta santità’. Nella prima metà del terzo secolo, il corpo martirizzato di Rufino, evangelizzatore di Assisi, fu ritrovato lungo il Chiascio, nei pressi di Costano. 383 La tradizione orale popolare di Caprara (Gualdo Tadino) vuole che il re goto Totila, che aveva martirizzato Ercolano, vescovo di Perugia, dopo essere stato sconfitto da Narsete nel 552 d.C, presso Gualdo Tadino, venisse sepolto nel territorio del piccolo centro, in un ipogeo di probabile origine altomedioevale: la cosiddetta “tomba de Tòttila”. Due toponimi facenti riferimento al re goto parrebbero rafforzare questa antica leggenda: “Palazzo de Totila” e “Boschetto de Totila”. San Benedetto da Norcia aveva predetto al re goto Totila, che, entro dieci anni, egli avrebbe perso la corona e la vita. 384 Il vescovo di Perugia Ercolano subì il martirio ad opera dei Goti di Totila. 385 «Risisto» = ‘resisto’. 386 «Le ralche mia» = ‘le mie radici’ (il termine ralca è derivato dal latino radicula, ‘piccola radice’). 387 «Afóndeno» = ‘affondano’. 388 «Volsùto» = ‘voluto’. 389 ‘Nome del terremoto in dialetto eugubino’. Molti ed interessanti sono i “sismònimi” nella nostra Regione; fra di essi, basterà citare sgrullìno, a Sigillo (che ha dato luogo anche ad un locale soprannome) e dringolìno, presente, quest’ultimo, nel territorio di Città di Castello e dell’Alta Valle del Tevere. I “sismònimi” Balenèllo, sgrullìno e dringolìno condividono tutti la forma diminutiva, e, in qualche modo, vezzeggiativa (che rivela, in maniera inequivocabile, il desiderio, da parte di coloro che coniarono tali nomi, d’ingraziarsi il favore di tale e tanto misterioso e distruttivo fenomeno geologico), nonché il fatto di rappresentare forme linguistiche di natura deverbale. Ciascuno di essi discende, infatti, da un verbo dialettale connesso con il concetto di ‘scuotere, facendo oscillare’. Balenèllo è, infatti, deverbale di balena’, sgrullìno di sgrulla’, dringolìno di (s)dringola’. 390 ‘Aggrovigliato’. 391 «Lenza» = ‘persona furba’. 392 ‘Altalena’. 393 ‘Dondola’. 394 «Te ninna» = ‘ ti fa oscillare’. 395 ‘Seno’. 396 ‘Mammella’. 397 «Dovèrte» = ‘diverte’. 398 «T’acòrghi» = ‘ti accorgi’. 399 «Mòrghi» = ‘muori’. 400 ‘Rovescia’. 401 ‘Oscilla’. 402 «Trimóre» = ‘tremore’. 403 «Scappato» = ‘uscito’. 404 ‘Rumore, strepito’. 405 Il vocabolo popolare, d’area eugubina, zénna deriva, come già detto, da geènna, ‘fuoco infernale, inferno’. 406 «So’ del gatto.». L’espressione indica la condizione di chi si considera inutile, perché ormai giunto all’ultimo stadio di una situazione irreversibilmente compromessa e, sentendosi perduto e senza alcuno scampo, si paragona al vile cibo di scarto che, fatalmente, alla fine di ogni pasto, viene dato ai gatti. 407 «Do’ n ce dà» = ‘dove non si verifica, non si manifesta’. 408 Il boato che precede il terremoto viene talora definito, come l’ululato del lupo, ‘urlo’. 409 «Trono» = ‘tuono’. 410 ‘Grotta di Monte Cucco’. 411 ‘Muggisce’. 412 «[…] Je s’arsènteno le vene […]» = alla lettera: ‘le sorgenti cominciano a rifarsi sentire’ (per la loro aumetata portata). 413 ‘Preso in giro’. 414 ‘Sulle spalle’. 415 ‘Sconquassa’. 416 ‘Diruta’. 417 ‘Penzoloni’. 418 «Comme ’n matto te fa ardùce» = ‘ti riduce alla condizione di un pazzo’. 419 ‘Sospeso a mezz’aria’. 420 ‘Supino’. 421 ‘Prono’. 422 «Anchi su le cèrque còjje» = ‘centra in pieno anche le querce’. Il Diàntene va qui contro l’opinione comune, per la quale il terremoto colpirebbe a casaccio, come chi, ubriaco, non centra neppure alberi grandi come le querce. Di quest’ultimo, infatti, un detto popolare dice: «’N còjje (o chiappa) manco su (o ’nte) le cèrque ». 423 «Vol fa’ bello» = l’espressione è ironica e significa proprio il contrario di quello che sembra. Il terremoto “vuole” rendere brutte le persone, cambiando loro i connotati. 424 ‘Entro’. 425 «Lavello» sta qui, ironicamente, per avello, ‘tomba’. 426 «Cianchétto» = ‘tibia, gamba’. 427 «Sguardata» = ‘occhiata fugace’. 428 «Arcomincia’» = ‘ricominciare’. 429 «Annema» = ‘anima’. 430 «D’arcontàvve» = ‘da raccontarvi’. 431 «’Mparàta» = ‘insegnata’. 432 «Matre» = ‘madre’. 433 «Ria» = ‘ingiusta, criminale, efferata’. 434 «Diêr» = ‘dettero’. 435 «Ghirlanda» = cognome, o soprannome, di Costacciaro del secolo XIV. A Gubbio, è ancora oggi presente un cognome simile a Ghirlanda, vale a dire Girlanda. 436 «Costaciàr» = ‘Costacciaro’ (alla lettera: ‘Costaciàro’, forma toponimica popolare tuttora in uso). 437 «Partîro» = ‘partirono’. 438 «Ser Vanni» = si tratta probabilmente di ser Giovanni di Brichi di Cantiano, al quale era stata affidata la custodia del castello del Monte di Santa Maria. 439 «Martìro» = ‘martirio, supplizio’. 440 «Di cacciar fingendo allo sparviero» = ‘facendo finta di andare a caccia con lo sparviero’. 441 «Fêro» = ‘fecero’. 442 «Il Monte» = ‘il castello del Monte di Santa Maria’. 443 Questa raccontata dal Diàntene è la cronaca, divenuta ormai storia, di un omicidio per il potere economico-politico avvenuto, ben 643 anni fa, in un castello del comitato eugubino e dell’attuale territorio di Scheggia, il Castrum Montis Sanctae Mariae, che sorgeva nei pressi dell’attuale frazione scheggina di Monte. Lo sfondo storico è, probabilmente, costituito dallo strascico delle lotte per il potere territoriale tra Gubbio e Perugia nel secolo XIV. Ecco il testo originario del documento archivistico, tratto dalla pregevole opera, dello scomparso dottor Piero Luigi Menichetti, che ci ha tramandato la presente storia, Castelli, palazzi fortificati, fortilizi, torri di Gubbio dal secolo XI al XIV, (Tipolitografia Rubini e Petruzzi, Città di Castello, 1979, s.v.: “Castrum Montis Sanctae Mariae”, p.237.):
Anni 1355 - 1356 «Et alora fu ordenato d’inganare quisto ser Vanni. Baldo de mes. Armanno fo l’autore et fo a Costaciaio. Cecciolo et Felippo de Ghirlanda erano compari del decto ser Vanni, li quali partendo da Costaciaio fecero vista andare a ucelare a sparviere. Ser Vanni li vedde et invitoli a colatione. Acetato lo invito, li mese dentro dal cassaro; et fine che li famegli dìero ordene a la colatione, costoro amazaro ser Vanni et tolsero el Monte».
Traduzione
‘[Fra gli anni 1355 e 1356] Fu ordito un inganno ai danni di questo ser Vanni [‘Giovanni’] Baldo di messer Armanno, che si trovava a Costacciaro, ne fu l’autore. Cecciolo e Felippo de Ghirlanda, che erano compari del detto ser Vanni, partirono da Costacciaro alla volta del castello del Monte di Santa Maria, facendo finta di andare a caccia con lo sparviero. Non appena ser Vanni li vide, volle invitarli a colazione. E, poiché costoro avevano accettato l’invito, egli li fece accomodare nel càssero; ma, mentre i suoi servi ordinavano di preparare la colazione, costoro ammazzarono ser Vanni, sottraendogli così il Castello del Monte di Santa Maria.’ (Ser Guererius Ser Silvestri “Cronaca”). 444 «De Costaciàro, ’nte ’n palazzo antico, la mójje c’aloggiò de Federico, che per Urbino fu ’l più grande Duca, ché, ’ncóra ògge, ce beve e ce mandùca. Batista se nomava, ’Tista, Sforza, ’na Dama ’nteligènte e pien de forza. Quanno passava, Lia, per Costaciàro, per dimostrà quanto ’l tenéa caro, se riposava ’nte ’sto palazzo antico, ch’arcostruì l’éa fatto su’ marito. Tanto era benvolsùta ’sta Signora, da molti detta “d’Urbin La Monsignora”, ma pî Costaciaròli Bonsignora, che La benedicéveno ad ognora. Da ’na finestra Éssa s’afacciàva e ’l popol tutto, Lia, te salutava. L’ànnima Sua continua ad albergare drent’a le stanze che vòlse abitare. Drent’al Palazzo Ducal de Costaciàro, certe sere ancór se vede ’n chiaro: è, bòn, lo spirto che schiara, de Quista, le sale docché soggiornò Batista. Si m’hai capito, mo’, sai che, ad ogni ora, qui vola l’ànnima de la Bonsignora. De Costaciàro, Ducale, ’nte ’l Palazzo, d’Urbino, i Duchi godéveno ’l sollàzzo. De Costaciàro, Ducale, ’nte ’l Palagio, d’Urbino, i Duchi, stéveno a bell’agio.» = ‘In un antico palazzo di Costacciaro (l’attuale Palazzo Chèmi, già dimora della famiglia Fauni, che dette alla Chiesa ben due Vescovi, dei Duchi d’Urbino, e, ancor prima, di Acomandolo di Deotecomandi, primo capitano del castello di Costacciaro) ebbe (secondo la tradizione orale popolare locale) ad alloggiare Battista Sforza, la seconda moglie del Duca Federico da Montefeltro, grazie al quale Urbino continua ancora oggi a ricevere benefici materiali («ce beve e ce mandùca», letteralmente: ‘ci beve e ci mangia’), portati dal continuo flusso turistico, attratto dalle memorie lasciate dal grande Signore del Rinascimento. Costei si chiamava Battista Sforza ed era una dama molto intelligente e piena di forza d’animo. Quando, viaggiando col suo séguito lungo la Via Flaminia,aveva a passare per Costacciaro (che costituiva allora l’estremo avamposto fortificato del territorio meridionale del Ducato), per dimostrare quanto amava questo luogo e tutti i suoi abitanti, volentieri si riposava in questo antico palazzo, che era stato fatto restaurare ed ampliare da suo marito Federico. Questa Signora, da molti detta “La Monsignora d’Urbino”, ma dai Costacciaroli, semplicemente, Bonsignora, (cioè ‘la signora buona’. A livello popolare, il termine monsignore è sempre “ritoccato” in bonsignore. Così avvenne anche per il compianto monsignor Domenico Bartoletti di Sigillo, che i suoi compaesani chiamavano semplicemente “bonsignore”), era tanto benvoluta, che il suo nome veniva continuamente benedetto. Ella, allora, quasi a ringraziare per la benevolenza dimostratale, volentieri s’affacciava ad una finestra e salutava tutto il popolo schierato sotto il grande palazzo, riccamente e variamente affrescato. La sua anima continua ancora ad albergare nelle stanze che le piacque abitare. Certe sere, nel “Palazzo Ducale” di Costacciaro, continua a vedersi un chiarore: è lo spirito buono di costei, che rischiara le sale in cui soggiorno il corpo di quella dama che, in vita, ebbe per nome quello di Battista. Se mi hai compreso sino in fondo, ora sai che, in ogni momento, in questo luogo aleggia l’anima della Bonsignora. Nel Palazzo Ducale di Costacciaro, i Duchi d’Urbino godevano e si sollazzavano. Nel Palazzo Ducale di Costacciaro, i Duchi d’Urbino si trovavano perfettamente a loro agio’. Da una botola di tale Palazzo, ultimamente abitato dalla famiglia Chemi, d’origine veronese, si accedeva ai cunicoli dell’acquedotto medioevale o rinascimentale, che giungevano sino all’arco pensile del torrione medioevale (“trióne”, in dialetto), proprio sopra le fonti fatte costruire da Federico da Montefeltro a Francesco di Giorgio Martini. Il grande architetto senese Francesco di Giorgio operò molto a Costacciaro, come testimoniato, a chiare lettere, da due scrittori, Bernardino Baldi, nella Vita e fatti di Federigo di Montefeltro Duca di Urbino, il quale, riferendosi agli anni 1463-64, scrive: « […] Molte altre fabbriche lasciò Egli dopo sé, e tutte notabili, e degne di Lui, fra le quali furono […] la rocca di S. Agata […] quella di Cantiano, di Costacciaro e di Mercatello […]». Ancora sull’argomento, Vespasiano da Bisticci, che nella sua opera, Vite di uomini illustri, riferendosi agli edifici fatti costruire da Federico da Montefeltro, scrive: «[…] La rocca di Canziano (‘Cantiano’, N.d.A.), dove aveva fatto cominciare una grandissima muraglia per accrescere la terra, che per la morte sua è restata imperfetta. La casa d’Agubbio. Una fortezza in Costacciaro, a salvamento del castello […]». «È questo il solo caso in cui si usa il termine fortezza, invece di quello di rocca, senza ulteriori specificazioni, a conferma dell’importanza militare di questo piccolo centro appenninico». (cfr. Gianni Volpe, Francesco di Giorgio, architetture nel ducato di urbino, Clup-Città Studi, Milano, 1991, p. 106). Secondo quanto scrive il Papini, sulla base delle ricerche dell’Hofmann, nel primo Novecento, anche a Costacciaro i duchi di Urbino hanno un palazzo, la cui parte inferiore «[…] che si vede tuttora e che sarebbe stata la sede dell’amministrazione di una parte del ducato, fu costruita sulle mura del borgo; la scala e le sale sono coperte a volte, con evidenti riflessi dell’architettura di Gubbio e d’Urbino […]». L’edificio di cui si parla altro non sarebbe che l’attuale palazzo Chemi, sito appunto al margine dell’abitato, vicino alla porta d’accesso al castello. Un edificio di grande mole e di tono che può far pensare a Francesco di Giorgio, tra l’altro operante qui per la sistemazione militare del castello. Il fabbricato presenta non pochi elementi d’interesse, come il cortile interno porticato, dove sembrano ancora presenti i segni dell’impianto quattrocentesco, nonostante i notevoli rimaneggiamenti successivi (un’iscrizione conservata al tempo dell’Hofmann confermerebbe che la residenza viene restaurata ed ampliata sotto il duca Francesco Maria) quando è residenza dei Fauni, come testimoniano le iniziali scolpite su alcuni portali interni (cfr. Gianni Volpe, op. cit., pp. 106-111). 445 Tra gli anni 1381 e 1382, Gubbio è in guerra con Perugia. Costacciaro, castello di confine, dunque particolarmente esposto, conta morti e feriti. I medici Johannes mag. Johannis e Petrus mag. Putii, inviati da Gubbio, si prodigano nel curare i numerosi feriti. 446 ‘C’era la guerra tra Perugia e Gubbio e tutti i Sigillani, senza alcuna esitazione, si erano schierati, dalla parte di Perugia, mentre Costacciaro decide di combattere per la città di sant’Ubaldo; e fa di tutto perché il lato più indifeso del territorio eugubino, cioè l’orientale, che corrisponde alla curia del castello di Costacciaro stesso, non cada in mano dei Perugini. Costacciaro vuole difendere questo lato del comitato eugubino, costringendo, al contempo, alla resa i nemici confinanti di Sigillo. Allora, escogita un piano, consistente nel costruire un’arma segreta e sconosciuta, un ordigno bellico, identificabile con una grande arma da fuoco, ma fatta di legno. Allora, si decide di andare nel fondovalle del Fosso del Cupo, a tagliare un enorme sambuco secolare, con il quale aprire una breccia nelle mura castellane di Sigillo. Si prende, allora, a tagliare l’archetipo di quest’insolita arma e, con il lavoro di più persone, lo si trasforma in un supercannone. Poiché, al posto del midollo o duramen, il sambuco presenta una cavità circolare, simile alla canna di un fucile, lo si tramuta facilmente in un orrendo archibugio. Poi, vi si mette dentro un sacco pieno di polvere da sparo, e, sulla polvere, si fa calare una palla, realizzata con la pietra calcarea, estratta dalla cava del Torrente Fossa Secca. L’affusto del cannone viene collocato in ottima, dominante posizione, in cima al rivellino («trióne» = ‘torrione’) di Costacciaro e lo si punta nella direzione di Sigillo. Con il fuoco di uno stoppino, per mezzo della miccia, si dà poi fuoco alle polveri. Per non udire la terribile esplosione, che farà fuggire in rotta tutti i Sigillani, ognuno si allontana dal supercannone. Ma la deflagrazione è talmente potente da far tremare il paese con tutta la gente che vi abita. Dopo l’esplosione vi è chi si ritrova ustionato («’fiaràto»), chi ucciso, ma, nonostante tutto ciò, uno prova lo stesso a parlare e lo fa con fierezza: «Cari miei, ci è andata molto bene: se l’ordigno ha prodotto qui un simile sconquasso, di Sigillo non sarà rimasta neppure l’ombra, se qui ha fatto una tale devastazione, è certo che, giù a Sigillo, avrà raso tutto al suolo, avrà fatto terra bruciata! Jj’esploratori, spediti a conta’ i danni, del viaggio poco pàteno jj’affanni, ché su la prima casa de Segillo, sènteno nn alto, abominévol strillo, «cinque, sei», se sente a leva’ nn ucco, che fa trema’ le balze al Monte Cucco. «Si cinque o sei èn già morti toquìne, drento Segillo avrà fatt’a pulìne!… Alora a Costaciàr presto tornamo, e, bòna, questa nova presto damo». ’Visati de sta bonissima novella, Costaciàro per poco nno sbarèlla, ma presto, per Sodoma e Gomorra, s’arsa’ che Segillo gioca morra, e, nn avèndoce avuto manco ’n morto, Segillo de gnènte s’è nicòrto.». Questa storia tragicomica potrebbe avere tratto origine dal vero. Attorno al 1491, infatti, tra Costacciaro e Sigillo dovette verificarsi una controversia circa i reciproci confini territoriali, controversia che potrebbe essere facilmente sfociata in una scaramuccia di confine con tanto di impiego delle prime rudimentali armi da fuoco. Il problema riguardava, in realtà, le realtà politiche che “in allora signoreggiavano” i due paesi pedeappenninici, vale a dire il ducato d’Urbino per Costacciaro e la città di Perugia per Sigillo. Il contenzioso si risolse con la vittoria della comunità costacciarola e dei diritti di proprietà dell’Università degli Uomini Originari di Costacciaro sul Monte Cucco. Il racconto popolare, relativo al cannone di sambuco, vuole che l’esplosione dell’affusto di legno provocasse la morte di tre Costacciaroli.
447 ‘C’era la guerra tra Perugia e Gubbio e tutti i Sigillani, senza alcuna esitazione, si erano schierati, dalla parte di Perugia, mentre Costacciaro decide di combattere per la città di sant’Ubaldo; di sant’Ubaldo e del duca d’Urbino, che volle costruire il rivellìno; e fa di tutto perché il lato più indifeso del suo ducato, cioè il sudorientale, che corrisponde alla curia del castello di Costacciaro, non cada in mano dei Perugini. Il duca d’Urbino vuole difendere questo lato del territorio eugubino (simboleggiato da «i cinque monti»), costringendo, al contempo, alla resa i nemici confinanti di Sigillo. Per ampliare il territorio ducale, Costacciaro, allora, escogita un piano, consistente nel costruire un’arma segreta e sconosciuta, un ordigno bellico, identificabile con una grande arma da fuoco, degna di ogni guerra, ma fatta soltanto di sostanza legnosa. Allora, si decide di andare su un colle del Monte Motètte, denominato Il Tarabùgo, a tagliare un enorme sambuco secolare, con il quale aprire una breccia nelle mura castellane di Sigillo. Si prende, allora, a tagliare l’archetipo di quest’insolita arma, e, con il lavoro di più persone, lo si trasforma in un supercannone. Poiché, al posto del midollo o duramen, il sambuco presenta una cavità circolare, simile alla canna di un fucile, lo si tramuta facilmente in un orrendo archibugio. Poi, vi si mette dentro un sacco pieno di polvere da sparo, e, sulla polvere, si fa calare una palla, realizzata con la pietra calcarea, estratta dalla cava del Torrente Fossa Secca. L’affusto del cannone viene collocato in ottima, dominante posizione, in cima al rivellìno («trióne» = ‘torrione’) di Costacciaro e lo si punta nella direzione di Sigillo. Con il fuoco di uno stoppino, per mezzo della miccia, si dà poi fuoco alle polveri. Per non udire la terribile esplosione, che farà fuggire in rotta tutti i Sigillani, ognuno si allontana dal supercannone. Ma la deflagrazione è talmente potente da far tremare il paese con tutta la gente che vi abita. Dopo l’esplosione vi è chi si ritrova ustionato («’fiaràto»), chi ucciso, ma, nonostante tutto ciò, uno prova lo stesso a parlare, e lo fa con fierezza: «Cari miei, ci è andata molto bene: se l’ordigno ha prodotto qui un simile sconquasso, di Sigillo non sarà rimasta neppure l’ombra, se qui ha fatto una tale devastazione, è certo che, giù a Sigillo, avrà raso tutto al suolo, avrà fatto terra bruciata! ». Per allargare la signoria dei duchi, Costacciaro ricorse a dei sambuchi’. Questa storia tragicomica potrebbe avere tratto origine dal vero. Attorno al 1491, infatti, tra Costacciaro e Sigillo dovette verificarsi una controversia circa i reciproci confini territoriali, controversia che potrebbe essere facilmente sfociata in una scaramuccia di confine con tanto di impiego delle prime rudimentali armi da fuoco. Il problema riguardava, in realtà, le realtà politiche che “in allora signoreggiavano” i due paesi pedeappenninici, vale a dire il ducato d’Urbino per Costacciaro e la città di Perugia per Sigillo. Il contenzioso si risolse con la vittoria della comunità costacciarola e dei diritti di proprietà dell’Università degli Uomini Originari di Costacciaro sul Monte Cucco. Il racconto popolare, relativo al cannone di sambuco (o di fico, secondo i Sigillani), vuole che l’esplosione dell’affusto di legno provocasse la morte di tre Costacciaroli. Secondo una variante di tale leggenda dopo la rovinosa esplosione, i Costacciaroli inviarono sùbito un drappello d’esploratori alla volta di Sigillo, per verificare l’entità dei danni prodotti dalla cannonata. Questi, giunti che furono presso le prime abitazioni del borgo, constatarono, esterrefatti, che, da una di esse, provenivano delle urla furiose: «Cinque, sei!….». Allora, interpretando la cosa erroneamente, ne dedussero che quei numeri si riferivano ai morti avuti da un unico gruppo familiare. Così, ritornando indietro, conclusero affrettatamente che era inutile proseguire l’indagine, poiché, se, già nella prima casa, si erano avute tali e tante perdite, la popolazione di Sigillo non poteva che essere stata completamente annientata. Giunti, allora, festanti a Costacciaro, diffusero la presunta “buona novella”. Furono, però, ben presto smentiti, poiché, le alte grida udite a Sigillo, altro non erano che i numeri, scanditi da due giocatori di morra, e, a Sigillo, non si erano registrati né danni, né, tantomeno, vittime, anzi, i Sigillani non s’erano accorti proprio di nulla. Per ampliare la signoria dei duchi d’Urbino, Costacciaro ricorse a dei sambuchi’. 448 26 marzo 1582: «L’Università del Castello di Costacciaro scrive al Duca Francesco Maria II Della Rovere, precisando che il nepote del Vescovo di Nocera, con una comitiva di amici, aveva sconfinato nella riserva dell’Isola di Messer Accoromboni; i gualdari (‘guardiacaccia e guardaboschi durante il Ducato d’Urbino’, N.d.A) e il Sindaco dell’Isola sono “molestati” dal Luogotenente di Gubbio per questo “malleficio presunto”». Da tale interessantissimo documento, si deducono due notizie straordinarie: che, cioè, sul finire del secolo XVI, l’Isola dei Figli di Manfredo aveva preso il nome di un nuovo proprietario, di famiglia eugubina molto importante, «Isola di Messer Accoromboni», e che l’Isola era divenuta una riserva di caccia dei duchi d’Urbino. La conclusione forse più importante che si può tarre da questa breve, e, certo, ancora preliminare, ricerca è che un’epigrafe mutila, che è stata recentemente scoperta alla Badia, recante la scritta “ROMBON”, in lettere maiuscole di tipologia rinascimentale, potrebbe, ed assai verisimilmente, essere continuata come “(ACCO)ROMBON(I)” e venire interpretata come una tabella lapidea di confine, segnalante i limiti di proprietà di tale famiglia o i confini dell’annessa riserva di caccia, che, come abbiamo visto, venivano talvolta violati da spavaldi cacciatori dell’epoca. Non si può neppure escludere, tuttavia, che l’iscrizione, visto il suo carattere elegante, trovasse posto su qualche architrave o fascia decorativa della stessa dimora costacciarola degli Accoromboni. Gli Accoromboni, o Acorimboni, erano ricchi signori di Gubbio, che, in tale città, possedevano un vasto e sontuoso palazzo rinascimentale ed avevano già dimorato, con un ramo collaterale della loro famiglia, nel castello di Collalto, ubicato, all’interno della curia del castello di Costacciaro, tra il Torrente Valdìle ed il Fosso di Ràncana (1345: «Bartolus Junte Acorimboni, Martinellus Junte Acorimboni in castro Colalti»). Il 6 gennaio dell’anno 1533, Johannes Francisci de Acorimbonis de Eug.(ubio) è eletto capitano di “castri Costacciarii”.Il palazzo degli Accoromboni a Gubbio è quello, rinascimentale, attuale sede di teleradiogubbio. Splendido è il suo androne, con portale interno d’arenaria, pieno di fregi scultorei e grottesche e recante un’iscrizione in latino. Bello anche il cortile interno. Sulla volta interna del portale è rappresentato, probabile emblema degli Accoromboni, o dei Massarelli, un grifo rampante, che brandisce una spada, di fronte al quale vi è il simbolo dei tre monti, ed il trofeo d’un cervo, sormontato da una stella ad otto punte, emblema del comune d’Apecchio e/o degli Ubaldini. Su di alcuni peducci, presenti sulle pareti laterali dell’androne che dà accesso alla dimora nobile, figurano due delfini, scolpiti nell’atto d’abbeverarsi ad un fonte. 449 «Francesco Maria Feltrio della Rovere, Duca VI di Urbino, Signore di Pesaro e Senigallia, Conte di Montefeltro e Durante». Si tratta di Francesco Maria II della Rovere, ultimo duca di Montefeltro, che morì, ad 82 anni d’età, il 28 Aprile 1631. Le terre, che erano state, per 235 anni (a partire dal 1396 con il conte Antonio), dei Montefeltro, passarono, allora, allo Stato della Chiesa. 450 «Vòlse accampa’ ’n diritto su ’sto monte, che solo ci ebbe ’n suo antenato conte» = ‘volle accampare un iniquo ed ingiustificato diritto di proprietà sui beni dell’Università degli Uomini Originari di Costacciaro, tentando di espropriarli del Monte Cucco. Questo diritto lo avevano legittimamente esercitato solo alcuni suoi antenati duchi di Montefeltro (come Guidobaldo), in origine conti. 451 In realtà, Francesco Maria II era un Della Rovere, anche se moralmente perpetuava quel Ducato “Feltrio” d’Urbino, che era stato creato e aveva toccato la sua acme sotto il grande Federico da Montefeltro, conosciuto e riconosciuto, ai suoi tempi, come “Lume d’Italia”. Da una carta del Ducato d’Urbino, realizzata, sotto il governo dei Della Rovere, tra gli anni 1508 e 1631, si apprende come quei Dalla Rovere che governarono il Ducato prendessero il titolo onorifico, e, in un certo qual senso, “etnico”, di Feltrio. Tale carta fu, infatti, dedicata: «Al Serenissimo Signore Francesco Maria Feltrio Dalla Rovere, Duca d’Urbino». 452 «Alóra manda ’n bon gruppo de guardiani, co’ l’archibugio tutti su le mani, cercando da ’mpedi’, che òmo avaro, che ’l monte fusse più de Costaciàro. Ma i Costaciaròli de ’na volta, ’nte du’ menuti scendeno in rivolta; ecco, li vedo, s’arduneno, pian piano, belli ’nguastiti e coi bastoni in mano. “Si én da mori’ ben sarìmo morti, vendicando, col sangue, tanti torti. Spiccando ’l volo, èsteli sul Cucco, docché se sente, unico, ’n grand’ucco. Tutti i guardiani bastoneno, ben bene, uno ad uno moràndojje le vene.’Sti òmini forti, i guardian del Duca, métteno ’n rotta, e, presto, ’n fretta e ’n fuga. ’Pena ’visato, Checco de la Rovere, eccolo a Costaciàr sùbbito piovere. Vòle fa’ lu’ ’n processo dove i soli, gastigati saròn Costaciaròli. Ma, più Costaciaròli, d’api comme ’n favo (le api, riunite in favo, qui citate, oltre a simboleggiare la laboriosità e la concorde unità verso un fine unico, virtù che hanno sempre caratterizzato, contraddistinguendoli da molte altre simili realtà, vicine e lontane, i Condòmini costacciaroli, alludono anche a quelle campeggianti sullo stemma gentilizio dei Barberini, della cui nobile famiglia Urbano VIII fu uno dei membri più illustri. In quest’episodio storico, le umili, ma fiere, api costacciarole si troveranno, così, coadiuvate da quelle, ben più altere ed altezzose, di “Papa Barberini”) vóleno dritti verso Urbano Ottavo. ’L Papa capisce chi è l’usurpatore e dî Costaciaròli è ’l salvatore: “Ènno ’sti mostri che v’honno levato, quello ch’è vostro e ve séte meritato! Bene ascoltate, e armarréte de stucco: sempre vostro sarà ’sto Monte Cucco, e, chi ’n ce crede, la testa io jje stucco. “Ma, commme che la prescia ’n vòl la fuga”, drent’a ’na buga te cade pure ’l duca, col suo cavallo, e col cappel de feltro, l’ultimo a vive de quei de Montefeltro. Per fa’ spari’ d’Urbino i gran patróni, Costaciàro ricorse da i bastoni.» = ‘allora eccolo inviare un gruppo di guardiani, incaricati di difendere il Monte Cucco dalle legittime “pretese” dei Costacciaroli, tutti armati d’archibugio, tentando d’impedire, da uomo avaro qual era, che i Costacciaroli avessero più a possedere, per il futuro, questa montagna. Ma i Costacciaroli di un tempo, scendono immediatamente in rivolta; eccoli, li rivedo radunarsi, piano piano, tutti inferociti e con i bastoni in mano. “Se dobbiamo morire, saremo morti bene, perché vendicheremo con il sangue i tanti soprusi che abbiamo subito!”. Come uccelli che spicchino il volo, eccoli già sul Monte Cucco, dove, da Costacciaro, si ode un unico grande urlo. Tutti i guardiani del duca vengono ben bene bastonati e si ritrovano le vene completamente tumefatte. Questi forti uomini di Costacciaro mettono in rotta i guardiani del duca, costringendoli ad una precipitosa fuga in massa. Non appena avvisato di questo grave fatto, il duca piomba a Costacciaro, dove intende immediatamente processare, in maniera sommaria, e far punire soltanto i Costacciaroli. Tuttavia, molti Costacciaroli, con la velocità di un favo d’api, “volano” diritti alla volta del Papa Urbano Ottavo. Il Papa capisce subito che l’usurpatore è il duca e salva i Costacciaroli dalle ire dell'iniquo Montefeltro, dicendo: “sono queste persone orribili che vi hanno privato di ciò che è vostro e che vi siete meritato! Ascoltate bene la profezia che ora vi faccio e restatene di stucco: il Monte Cucco rimarrà per sempre di vostra proprietà e chi non crede a quanto dico sarà, seduta stante, decapitato!” Dato, però, che, come recita un proverbio popolare di Costacciaro “la fretta non tollera la precipitazione” (la precipitazione è quella del duca che pretende di esigere, in virtù del suo alto rango, “un’immediata ingiustizia” dalla sentenza del Papa), in un tranello cade persino l’astuto duca (il tranello, metaforico, è quello tesogli dal Papa, che ha tutto l’interesse a che le pretese terre del duca restino nelle mani dei Costacciaroli. Di lì a poco, infatti, saranno i suoi successori a sostituirsi ai duchi d’Urbino nell’esercizio del potere temporale sulle terre un tempo governate dai Montefeltro), vi cade con tutto il cavallo ed il cappello di feltro, colui il quale sarà ricordato dalla storia come l’ultimo, della schiatta dei Montefeltro, a comandare il ducato d’Urbino. Per fare estinguere la nobile stirpe dei grandi padroni d’Urbino, Costacciaro si avvalse dei bastoni’. 453 «Vòjja o’n vòjja, maggio vòl la fòjja» = ‘che lo vogliano o no, il mese di maggio impone agli alberi di ricoprirsi di foglie’ (antico proverbio meteorologico di Chiasèrna). 454 ‘Ogni sedici di maggio, i ragazzi di Villa Col de’ Canali, rendevano omaggio a Sant’Ubaldo, i ragazzi Villanti, a dire il vero, celebravano sempre la festa del Cero, che era uno soltanto, piccolo e di legno, ma, nella forma, simile a quelli di Gubbio. Era un Cero piccolo, ma realizzato assai bene, poiché, alla base, aveva una portantina. Le forme di questo Cero erano stravaganti, poiché, sotto, la portantina, aveva quattro gambe. Quattro paletti, disposti a formare una sorta di capanna indiana, andavano poi a costituirne l’intelaiatura, sulla quale veniva distesa la tela di juta di un sacco. Questo sacco era anch’esso bello, tutto verniciato com’era di verde e di giallo, che sono i colori della bandiera di Villa Col de’ Canali. Questa tela, tutta colorata di verde e di giallo, era, in realtà, stata completamente ricoperta di calcina, nella parte sottostante, per renderla rigida. In cima al Cero, fissato assai saldamente, stava un pupazzo di pezza, rappresentante Sant’Ubaldo. Se ti fossi trovato a vivere la festa, avresti potuto vedere i due ragazzi incaricati di portare il Cero, mentre cantavano l’inno a Sant’Ubaldo, “O lume della Fede” e un’allegra comitiva di giovani dirigersi processionalmente alla volta del paese di Rancana, un allegro raduno di giovani, che, ottenuto un semplice cesto d’uova, erano felici di essersi guadagnati la giornata. Con queste uova facevano poi una cena, nel corso della quale scordavano ogni pena determinata dalla miseria’. Tale tradizione, di cui non conosciamo la data d’inizio, s’interruppe nell’imminenza dell’ultimo conflitto mondiale e non fu mai più ripresa. 455 Quello di San Giovanni Battista (24 giugno) era un giorno molto importante anche in epoche precristiane, poiché corrispondeva, pressappoco, al solstizio d’estate. Il sostantivo maschile solstizio, risalente al secolo XIV, discende dal latino solstitium, ed è, a sua volta, costituito dai termini sol, solis, ‘sole’, in unione con un derivato del verbo stare, ‘fermarsi, soffermarsi’. È proprio perciò, che, in corrispondenza di tale giorno, veniva raccolta la cosiddetta guàzza de San Giovanne, vale a dire acqua (il sostantivo femminile guàzza discende, infatti, con buona probabilità, dal germanico wasser, di medesimo significato) profumata, prodotta, per infusione, da vari (si dice cento) tipi di fiori di campo e di giardino (specie le rose e “l’Erba de la Madonna”), lasciati “in ammòllo” all’interno di un catino sin dalla vigilia della festa ed esposta, poi, per l’intera notte, all’aperto. Tale sorta d’acqua di rose si considerava, così, caduta, in qualche modo, dal cielo. Secondo alcune interpretazioni in chiave cristiana del rito popolare, invero assai poco credibili, la guàzza de San Giovanne altro non simboleggerebbe che l’acqua del Giordano con la quale Giovanni battezzò Gesù Cristo. 456 «De San Giovanne, drento de ’nna tazza, i vecchi nostri mettéveno la guàzza, ch’era, de fiori, ’na specie de tisana, fòri lasciati tutta la notte sana, ch’era de fiori, messi a móllo, fatta, e, la matìna, sùbbito, ritràtta. Acqua pareva tratta da le rose, con che podévi fàcce tante cose. Acqua pareva, piovuta giù dal cielo, ’nuta a protègge, come dal sole, un velo. Acqua pareva, davéro, tutta santa, ch’ogni vita arguarìva tutta quanta. Si, ppo’, qualcuno la faccia ce lavava, parécchio mèjjo, parécchio mèjjo stava. ’L prefumo suo, sempre, jje conferìva, anchi si ’nvèlle, anchi si ’nvèlle ’n giva. L’acqua pareva con che San Giovanni levò da l’òmo jj’originali danni, l’acqua pareva con che, ’nte ’L Giordano, batisò Cristo de sua propia mano. L’acqua pareva con che San Giovanni ’nte l’acqua, Cristo, ficcò con tutti i panni» = ‘I nostri vecchi versavano all’interno di una tazza la cosiddetta guàzza de San Giovanne (L’antroponimo popolare Giovanne mantiene la -e etimologica finale del nome personale latino Johannes, ‘Giovanni’). , che era una specie di tisana fatta di fiori, lasciati per l’intera notte all’aperto, una tisana fatta di fiori lasciati ad ammollire («messi a móllo») nell’acqua, e, subito ritirata, sul fare dell’alba. Pareva una vera acqua di rose, con la quale potevi fare davvero tante cose. Sembrava un’acqua piovuta giù dal cielo e venuta («’nuta», agg. e part. pass., variante aferetica di venuta) a proteggere l’uomo, così come un velo lo salvaguarderebbe dai raggi troppo caldi del sole. Somigliava ad un’acqua in tutto e per tutto santa, che risanava tutto quanto il corpo («vita», s.f.). Se, poi, qualcuno ci si lavava il viso, si sentiva davvero molto, molto meglio. Infatti, il profumo che ne esalva gli giovava («jje conferìva», f. verb.) sempre, anche se costui non fosse andato a curarsi proprio da nessuna parte («’nvèlle», avv.). Questa guàzza sembrava essere l’acqua con la quale, per primo, San Giovanni cancellò i danni derivanti all’uomo dal peccato originale («jj’originali danni», letteralmente: ‘i danni originari, le colpe d’origine’), quest’acqua pareva come quella con la quale San Giovanni battezzò («batisò», f. verb.) il Cristo con le proprie mani, come quella, cioè, nella quale il Battista immerse («ficcò», f. verb.) il Cristo insieme a tutti i panni che Egli, in quel momento, indossava (durante il Suo battesimo, Cristo è spesso pittoricamente rappresentato mentre è, in maniera quasi completa, immerso nel Giordano, vestito con i suoi panni consueti)’. Le intitolazioni delle chiese al Battista furono, insieme a quelle alla Madonna, fra le più antiche dedicazioni cristiane. La cattedrale altomedioevale di Gubbio dovette, ad esempio, essere consacrata a questo Santo “precristiano”. 457 «Tanto a la Schiggia se venera Maria, che de Madonne ce n’è ’nna ravastìa: quella de le Grazie a Valsarnìa, Maria, la ’Sunta, c’è su ’n Campetèlla, quella de ’l Càrmine sta da piedi al Fiume, ’n’antra Santa Maria stéva sul Monte, a Valdorbìa c’è la Loretana, n’antra ’Sunta se venera la ’n Sìtria, una Addolorata sul Calvario, del Trebbio ’n’antra drento de La Schiggia, la settembrina è patrona scheggina, quella de la Neve a Belvedere, del Bòn Consìjjo a Ponte Calcara.» = ‘A Scheggia, la venerazione mariana fu, ed è, talmente diffusa che, nei secoli, si eressero, sotto vari titoli, ben undici chiese consacrate alla Vergine Maria («’nna ravastìa» = ‘un gran numero’): quella delle Grazie a Val de Sarnìa (o Valsarnìa), Santa Maria Assunta in Cielo a Campitello, la Madonna del Carmelo in località Fiume. Un’altra chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria sorgeva sul Monte, detto, appunto, di Santa Maria, a Valdorbìa si venerava la Vergine Lauretana («Loredana/Loretana» = ‘di Loreto, relativa a Loreto’) o Madonna di Loreto, una seconda chiesa dedicata dell’Assunta era, poi, quella di Santa Maria di Sìtria, un’altra, invece, nella quale si venera la Vergine Addolorata, esiste sul Monte Calvario (e viene portata in processione per le vie di Scheggia la sera del Venerdì Santo), ancora un’altra chiesa mariana sorgeva, anticamente, nella località Trebbio di Scheggia (o Santa Monica), e, in essa, era venerata la Madonna della Neve, la Madonna di Settembre, è, poi, ancor oggi, insieme a San Paterniano, la copatrona di Scheggia, la Vergine della Neve si venera, inoltre, a Belvedere di Scheggia (e Ràncana di Costacciaro), mentre, quella del Buon Consiglio, a Ponte Calcara’. 458 «Terra, de cento sapori» = ‘suolo disomogeneo e differenziato, nelle sue varie parti, in quanto a componenti organiche e minerali’. 459 Il Diàntene profetizza il giorno della sua morte ed il luogo della sua sepoltura, oltreché il grande stupore procurato agli uomini, che lo credono immortale, dalla constatazione della sua scomparsa. 460 «Gran villano» = ‘abitante della villa di Chignano, dedito all’agricoltura, divenuto ricco e potente’. 461 «Vital d’Angelo, de Michele fiòlo, che, quanno mòrse, ci ebbe ’n pensière solo: da rigalare case, terre e greggia da tutto quanto ’l popolo de Scheggia. ’L volere suo sta drent’a ’n testamento, Schigi notaro rogò quel documento. ’Na terza parte déce da lo ’spedale, perché la gente più ’n patisse ’l male, quel’altre due dal sindico le dette: l’opere sue so’ state bedenette.» = ‘Vital d’Angelo, figlio di Michele, il quale, in punto di morte, non ebbe che una volontà: donare case, terre e bestiame a tutto quanto il popolo di Scheggia. Il suo volere è ora contenuto in un testamento, rogato dal notaio Claudio Schigi di Costacciaro. Un terzo dei suoi averi devolse in favore dell’ospedale dei santi Filippo e Giacomo di Scheggia, affinché la gente non soffrisse più di alcun male, e le altre due al sindaco: le sue pie opere sono state benedette dal Signore’. 462 «Sto’òmo, ’n vita, fu solo ’n fatóre, mòrse, però, da gran benefatóre.» = ‘In vita, quest’uomo non fu altro che un ricco fattore, quando morì, però, divenne un grande benefattore’. 463 Questo antico proverbio popolare può essere così parafrasato: ‘chi leggera, ordinaria e modesta (rappresentata dal legno d’abete [cioè i poveri]), chi pesante, straordinaria ed esaltante (simboleggiata dal legno di noce [vale a dire i ricchi]), ciascuno, nella sua vita, è destinato a portare sulle spalle la propria croce’. 464 «Non t’amànca» = ‘non ti manca’. Antico detto della saggezza popolare. 465 «Dàjje, dàjje» = ‘dagli, dagli’. 466 «Si, quann’è tempo, l’òmo non moriva, de più campa’ senz’altro ’gne ne giva» = ‘se fosse vissuto in eterno, l’uomo si sarebbe stancato persino di campare’. Altro adagio di tradizione orale popolare. 467 Altro detto tradizionale. 468 «Armànghen» = ‘rimangono, restano’. 469 «C’éva ’l banco» = ‘aveva il banchetto sul quale sedersi’. 470« C’éva ’l culo e ’n c’éva ’l banco» = ‘aveva il culo e non aveva il banchetto’. Filastrocca popolare che potrebbe essere adeguatamente resa dal detto italiano: “Chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane”. 471 Sulla copertina del parapetto del Ponte delle Fontanelle vi era una scritta, incisa sulla pietra, recante un messaggio, ironicamente rivolto (“sàtria”, s.f., = ‘satira’), dalla popolazione di Villa Col de’ Canali, a Salvatore Puletti, il quale, nell’intento di proteggere il margine del suo campo dall’erosione prodotta dalle piene del torrente, aveva vanamente tentato, a furia di picconate, “d’andrizza’ ’l fosso”, ovverosia di deviare il fosso, scavando un canale artificiale ben presto abbandonato dalle acque, che avevano fatto ritorno nell’alveo naturale del corso d’acqua. 472 ‘Il bue dal passo lento non perde il ritmo dell’aratura’. 473 Il Diàntene narra, in dialetto, al suo interlocutore che lo sta abbandonando, la parabola evangelica del Figliòl pròdigo, con l’auspicio che questo suo strano intervistatore, provenuto da un altro “pianeta”, rimasto un po’ nel “mondo della bòria”, voglia far ritorno stabilmente presso di lui. 474 «“Chi gioca al lotto, e spera de vénci, scappa dî stracci ed entra ’nti cénci!”. Da già, la gente, era mattemàtica, figùrte, ade’, che fa la lottomatica. Per manda’ giù la vita senza arlòtto, mai non toccarìa da dàsse al lotto. La vita, su ’sta terra, è già ’na lotta, e c’è chi armàne secco su la botta, ma, ppo’, quello che vòle gioca’ al lotto, perde i guadàmbi sua tutti de ’n bòtto; tanto se gonfia, per gratta’ ’l rosùme, finché ’n te crepa, ciambòtto pien de fume». = ‘Chi, giocando al lotto, spera di vincere, si sveste degli stracci che portava per rivestirsi di miseri cenci (vecchio proverbio eugubino). La gente era già diventata tutta matta, figurati cosa può essere divenuta adesso che si è data alla lottomatica. Per digerire i bocconi amari della vita senza ruttare, non bisognerebbe mai giocare al lotto. Su questa terra, la vita è già una lotta di suo, e c’è chi ci lascia persino le penne, ma, colui il quale insiste nel cercare la fortuna, giocandosi l’esistenza al lotto, finisce per perdere, in una sola volta, tutti i guadagni realizzati in una vita di sudori; costui, per farsi passare la smania di facili arricchimenti, si inorgoglisce così tanto delle misere e temporanee vittorie fortunosamente ottenute, da fare, all’improvviso, la triste fine del rospo, che, costretto da una sadica mente umana, ad inalare il fumo di una sigaretta, si gonfia così tanto da esplodere immerso in dense nuvole di fumo’. 475 «L’acquitrino del Passo della Porraia» = il Passo della Porraia è un luogo, temporaneamente acquitrinoso, situato nei pressi della località La Fida. Due zone, relativamente umide del Parco, prendono il nome di Porraia: il Passo della Porraia ed Il Fosso la Porraia. Il primo nome di luogo indica un passo situato, a 931 metri s.l.m., lungo un antico tracciato pastorale, che congiunge le Marche con l’Umbria, il secondo un ramo dell’alto corso del Fosso Regolìno, in comune di Fossato di Vico. Il termine toponimico Porraia, significante ‘luogo fangoso, paludoso’, è un toscanismo. Nella toponomastica dell’area del Parco del Monte Cucco, non è infrequente rilevare simili toscanismi. La causa dell’umidità del primo luogo deriva dal fatto di essere situato in terreni semimpermeabili (Calcari e marne del Sentino) e nei pressi del Rio Freddo, quella del secondo risulta del tutto evidente. 476 Le campane di talune chiese, spesso usate per le rituali rogazioni, prendevano il nome di “Elisabetta”, poiché santa Elisabetta è, come dice la presente preghiera, recitata un tempo a Sigillo e nel suo territorio, specialmente invocata, insieme a sant’Anna e a santa Barbara, contro i fulmini (“fùlmeni”, s.m. pl.): «Sant’Anna, Santa Barbara e Santa Elisabetta liberàtece dal fulmine, da la grandine e da la saetta!». In queste campane impiegate per le rogazioni e per allontanare i temporali era talvolta scritto, come a Villa Col de’ Canali: «A fulgure et tempestate libera nos, Domine» = ‘Liberaci, o Signore, dal fulmine e dalla tempesta!’. 477 Antica implorazione rivolta a sant’Ubaldo, perché, al primo lampeggiare del cielo (“slàmpena”, v. intr. = lampeggia), scongiuri la minaccia della grandine (“gràndena”, s.f.) e dei fulmini. 478 Alcune persone, specie i religiosi, sconsigliavano o proibivano questa pratica, dicendo che le catene del caldaio potevano evocare quelle, infernali, con le quali era stato legato Lucifero, il quale secondo un proverbio popolare non potrà mai più liberarsi dalla sua prigionia, perché, come avrebbe detto Iddio, egli si potrà svincolare soltanto: «[…] Quanno l’oliva butta la fòjja, quanno dal cielo cade la neve nera, quanno Pasqua vène de maggio!». Antica implorazione rivolta a sant’Ubaldo, perché scongiuri la minaccia della grandine e dei fulmini. 479 «“La terra anchi dal fulmine l’arègge”: vòi che ’n te tène dei cristiani ’l gregge? Fìcchete sùbbito sott’a ’nno spino grosso, ché ’l fulmine ’n te pòle cade adòsso.» = (il Diàntene ripete un antico detto popolare: “La terra arègge anchi dal fulmine”, cioè: ‘la terra sostiene anche il fulmine’)‘La terra regge anche l’impetuosa caduta del fulmine, che, in essa, esaurisce tutta la sua energia: vuoi tu che non sopporti il peso del gregge degli uomini che, a miliardi, giornalmente la calpestano? Rifùgiati immediatamente sotto un grande arbusto spinoso, poiché, riparato sotto le spine di questa pianta, il fulmine non potrà mai colpirti!’. La presenza antica di arbusti spinescenti, che punteggiavano un tempo le praterie montane, ha probabilmente dato origine al nome di uno dei più bei pianori del massiccio del Monte Cucco: Pian di Spilli o de Spille (dal latino spinulae, spinuli?). A salvaguardare questi arbusti spinosi, detti genericamente “spini”, contribuì una credenza radicata presso gli abitanti di San Felice: essi avrebbero protetto dai fulmini le pecore “’meriggiate” sotto le loro chiome. Uno spettacolare individuo di “spina bianca” (Crataegus sp.) sorgeva, sino a pochi anni fa, su di una pendice del Monte Forcello, in comune di Scheggia. L’annoso arbusto veniva detto “La Spina” e, dal suo nome, si denominava anche l’area ad esso circostante. I pastori amavano soffermarsi all’ombra dei suoi rami. 480 Quando, durante un temporale, lampeggiava, le persone superstiziose erano solite farsi, “in nòme della Santissima Ternità”, (ovverosia: ‘nel nome della Santissima Trinità’), che il triplice gesto evocava, tre segni di croce sulla fronte. 481 «Po’, questa lampa, tène su le mano: si te se spigne, vól di’ che sai lontano, si te se smòrcia con ciàmo de lute, le pene tua te l’averai volute; sinnò, col lume fiacco de le stèlle, tu, cocco mio, non pòssi gìcce ’nvèlle. ’Sta lampa vecchia se chiama cendilèna, t’aiutarà a camina’ con lèna, ’sta lampa racchia fa lume col carburo: è ’n lume chiaro, che fa spari’ lo scuro. Ce gìvon, setoràti, i minatori, i spiòlichi, i ladri de tesori…». Il Diàntene da’ un estremo, prezioso consiglio all’uomo moderno, che deve intraprendere la strada del ritorno al fioco lume delle stelle. Il simbolismo è chiaro: l’uomo moderno ritorna nel mondo d’ombra dal quale era emerso, ma il Diàntene, con i suoi saggi e sapienti ammaestramenti, gli consente di viaggiare sicuro, in quella paurosa oscurità, fornendogli lo straordinario strumento, rappresentato dalla “saggezza illuminante”, che è simboleggiata dalla “lampa cendilèna”. Nella notte illune del “mondo-aldiquà”, l’uomo, così istruito, non potrà mai più smarrire la retta via e perdersi per i tanti “stradelli avèrsi”, che la intersecano e la confondono. ‘Poi tieni in mano questa lampada: quando ti si spegnerà vorrà dire che sei lontano, se la fiamma si spegne accompagnata da uno sciame di scintille (“ciàmo de lute”. Il termine dialettale luta, ‘scintilla’ deriva dall’aggettivo latino luteus, ‘giallo’, a causa del suo colore “biondeggiante”), le pene, a cui andrai incontro, sarai stato tu ad avertele cercate; altrimenti, con il fioco lume delle stelle, non potrai andare proprio da nessuna parte (“’nvèlle”). Questa vecchia lampada, che si chiama acetilene (’cendilèna è forma dialettale aferetica (derivata da un probabile modello antecedente, come *acendilèna) e normalizzata, originatasi sulla spinta dell’analogia formale con il verbo acènde, ‘accendere’.), ti aiuterà a camminare spedito, questa lampada brutta fa luce grazie al carburo: è una luce chiara che fa dileguare le tenebre. Ci andavano sottoterra (si noti la marcata sottolineatura che porta con sé l’impiego dell’aggettivo setoràti, che, letteralmente, equivale all’italiano ‘sotterrati’) i minatori, gli speleologi (“spiòlichi”) e i tombaroli…’ 482 «Si la notte te còjje, tutt’a ’n tratto, da l’Ostaria fèrmete de ’l Gatto, ch’a Costaciàro sta sopre ’L Trióne, e ch’a ’loggiato ’n mucchio de persone; prima che entri, vedderai tu ’n gatto, de pietra lavorata tutto fatto, sopre de lue, ch’apòggia sopre ’n tronco, ’n pensiere leggerai, che pare monco; che sia ’l sole, o ’l nuvolo, o che piova, a ben capìllo ognun che passa prova: “Io so’ ’l gatto e l’ostello se ne giova”.» = ‘Se, durante il tuo viaggio, vieni sorpreso improvvisamente dalla notte, fermati all’Osteria del Gatto, che si trova nei pressi del rivellino di Costacciaro e che, nei secoli, ha alloggiato un gran numero di persone; prima di entrarvi, tu vedrai l’effigie di un gatto, scolpita su di una pietra arenaria, sopra di esso, che poggia le zampe sopra un tronco d’albero abbattuto, leggerai un concetto, che, a tutta prima, può sembrare incompleto ed incoerente; chiunque passa, e, con qualsiasi tempo, osservando attentamente questa pietra scolpita in bassorilievo e la soprastante epigrafe, tenta di afferrarne rettamente il senso: “Io sono il gatto e l’ostello se ne giova”. Su un muro di Costacciaro, si conserva una pietra arenaria sopra la quale è scolpita, in bassorilievo, l’immagine di un gatto. Sopra di esso, figurano tre sibilline frasi sovrapposte e scritte in caratteri maiuscoli («ISOVGAT/EOSTEVL/ENIOVET»). Il manufatto potrebbe rappresentare un possibile vestigio scultoreo d’epoca altomedioevale, forse proveniente dal Castello dell’Isola dei Figli di Manfredo. Questo, almeno, è quanto suggerisce un’ipotesi avanzata dall’illustre studioso di epigrafia latina Bartolomeo Borghesi, il quale, passando per Costacciaro agli inizi del XIX secolo, commentò con le seguenti parole l’iscrizione scolpita sulla pietra: «Queste sono le vostre voci avanti il mille [...] ma le parole sono di quella nostra vecchia lingua, che i Provenzali chiamarono romanesca» (cors. agg.). Cfr. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, vol. II, par. II, Imperiale Regia Stamperia, Milano, 1820, pp.184-185. Nessuna controversia può insorgere sul fatto che, una locanda, specie se antica, in cui venivano conservati numerosi generi alimentari, si potesse giovare dei servigi resi da un gatto con il mangiare i topi. Tuttavia, il senso dell’epigrafe può leggersi anche simbolicamente, facendo il gatto uguale al padrone dell’ostello e i topi uguali ai ladri che lo minacciavano o ne sfruttavano i servizi senza pagare. «State attenti! -pare dire il padrone gatto agli sfruttatori topi- io sto ben saldo sul tronco della mia proprietà, pronto a balzare su di voi come una fiera per divorarvi tutti quanti siete!…».
483 ‘Un uomo, che era stato sorpreso dalla pioggia sui Cinque Spacchi del Diavolo, vi rimase folgorato a causa di un fulmine. Nel punto preciso in cui l’uomo fu colpito dalla setta, per ricordarlo vi fu piantata una croce di legno. Di questa croce, che un tempo era secca, ora, a cercarla, non ne potresti ritrovare neppure una stecca. “Il fulmine può essere fermato anche dalla terra”, ma si dice che, quello stesso che uccise l’uomo, uccidesse più di un gregge, molte vacche sulle rocce della montagna, la cavallina del “Bòccia” (Salvatore Mosca) a Casalvènto, una quercia nella Macchietta (un querceto secolare) del povero Ruggero Brunamonti, presso Coldagello di Costacciaro, l’intero campetto costituito dal Pian de’ Porci (un pianoro della montagna sigillana, il cui nome deriva dal fatto che i maiali vi erano lasciati liberi di pascolare, allo stato brado, nutrendosi dei tuberi e delle faggiole e sul quale cadono moltissimi fulmini, perché, secondo i vecchi abitanti del borgo pedeappenninico, il sottosuolo di quest’area sarebbe assai ricco di minerali ferrosi) sulla montagna di Sigillo. Tuttavia, il luogo che venne maggiormente tempestato da questo fulmine fu, a quanto si dice, una parte della faggeta della Valràchena, denominata significativamente “La Fulminàra”, verso la quale, essendovi rocce ferrose, i fulmini vengono irresistibilmente attratti, tanto e così bene, che, durante i temporali, la maggior parte dei faggi ne restano bruciacchiati o fessurati dalla chioma alle radici’. 484 «Quanno che tròna, forte, su Le Fagge, senti’ ’n se pòle canta’ manco le gàgge, senti’ non pòssi lo stragina’ de trégge, e, manco ’n bèlo, levàsse da ’n grègge. ’L lampo fa giorno, giù le scure Piagge, che, solàte, pàrgheno le spiagge; fa, de fulmine, ’ni rama, du’ crepégge; su la terra, che da lue sempre l’arègge. ’N fùlmino cade da cima ’L Nofégge, fa, de ’n faggio, mijàri de schegge, ’nvéce de ’n chiòppo, se sènten du’ saràcche, de ’na golana fa, ’l fulmine, du’ pacche; de una sola, fa ’n fulmine, du fagge: pî muratori èn pronte già le stagge.» = ‘Allorquando si sente fortemente tuonare sul Monte Le Fagge (la tradizione orale popolare dei paesi di Villa Col de’ Canali e Villa Scirca vuole che, da due distinte località montane, sovrastanti i rispettivi centri, ma entrambe denominate Le Fagge, per la presenza d’alberi e boschetti di faggio, si formino e si scatenino impetuosi temporali estivi, che si preannuncerebbero attraverso l’emissione di terrifici rombi di tuono (a Villa Col de’ Canali, si crede, altresì, in maniera singolarmente contraddittoria, che, la scarsa piovosità estiva caratteristica del paese sia dovuta al fatto che Le Fagge allontanano (“slontàneno”, f. verb.) e disperdono (“spèrdeno”, f. verb.) i temporali. Tali tempeste si andrebbero, poi, rovinosamente ad abbattere, e scaricare, sui due abitati pedeappenninici) meglio noto, anche se impropriamente, come Ranco Giovannello (m 1158 s.l.m.) per la raggelante paura che, improvvisamente, le assale, è impossibile persino sentire il canto delle proverbialmente gàrrule (Garrulus è, non per nulla, il nome scientifico latino di questo genere d’uccelli e “sgaggianti”, agg. e part. pass., vale a dire ‘querule, strepitanti, petulanti’) ghiandaie (Garrulus glandarius); in questa precisa circostanza, non si può udire neppure lo strepitante rumore emesso dalle strascinate «trégge», s.f. pl. (‘sorta di slitte da “sci ruvido”, impiegate, un tempo, per trasportare carichi pesanti su terreni accidentati’), e neanche un solo belato («bèlo», s.m.) levarsi da un intero gregge di pecore. Il lampo, antecedente il tuono che rimbomba sulle Fagge, giunge a rischiarare persino la località Le Piagge di Villa Col de’ Canali, caratterizzata da una fitta e perenne penombra. Così illuminate, le oscure Piagge paiono, allora, brillare al sole («solàte», agg. e part. pass. = ‘assolate’), come le dorate sabbie di una spiaggia marina. Una volta scaricatasi al suolo, ogni singola diramazione («rama», s.f.), che il fulmine disegna nel cielo corrusco e livido del temporale, può produrre due crepe («crepégge», s. f. pl.) nel terreno, che è sempre in grado di contenere ed annullare la carica distruttiva del fulmine («[…] su la terra, che da lue sempre l’arègge» = letteralmente: ‘sopra la terra, che sempre lo sostiene’).. Un fulmine («fùlmino», s.m.), cadendo su quella che, lato sensu, può essere considerata la cima («da cima», loc.) principale del Monte Nofégge (m 1015 s.l.m.), vale a dire sul Monte Le Cèse (m 1025 s.l.m.) ed abbattendosi su di un faggio possente e solido dello spettacolare bosco plurisecolare delle Cèse, lo riduce in migliaia («mijàri», s.m. pl.) di schegge legnose, caoticamente sparpagliate; se, al posto di un boato («chiòppo», s.m., letteralmente ‘scoppio’), si odono invece, due rombi («saràcche», s.f. pl.) di tuono, ravvicinati nel tempo, il fulmine fa di un unico albero di nocciuolo («golana», s.f., < variante morfologica popolare del fitonomo latino [nux] abellana, ‘noce di Avella’, indicante, in antico, il nocciòlo, botanicamente conosciuto come Corylus avellana) due distinte parti mutile («pacche», s.f. pl., letteralmente: ‘porzioni, tronconi’) ; dividendo in due parti («du’ fagge», loc., letteralmente: ‘due distinti alberi di faggio’) una singola pianta di faggio, i muratori si trovano, già bell’e pronta, la legna necessaria per costruire gli staggi («stàgge», s.f. pl.), vale a dire, quei ‘lunghi pezzi di legno, a sezione circolare, per lo più impiegati, nell’edilizia, con funzione di collegamento o sostegno.’ 485 «arìzza» = ‘rizza’. 486 «La volpe giù ppe’ ’l fosso arizza’l pelo» = nota strofa del canto del Maggio di Gubbio. Il Diàntene, ironico, parla tra il serio ed il faceto. 487 «Io non so’ ’l billo, io te li sbróllo i ossi.» = Il Diàntene sta facendo propria una frase pronunciata, un tempo, dal defunto Alfredo Marini di Costacciaro (“Chillo de Fischietto”), che, a quanto pare, si sarebbe minacciosamente rivolto ad una tacchina, o ad una gallina, che gli aveva fatto dei danni, promettendo a questa che egli non sarebbe stato altrettanto pietoso e magnanimo nei suoi confronti, come, invece, era stato in precedenza il tacchino (“billo”). L’espressione «[…] sbróllo i ossi.» vale, alla lettera: ‘rompo le ossa come si fa con i rami’, cioè spezzandole alla base (“stolla’” è il verbo popolare di maggior impiego per esprimere tale significato). Si noti, nella frase intimidatoria, il repentino passaggio del discorso del Diàntene dal voi, che esprime rispetto e considerazione, al tu che indica, sì, confidenza, ma, anche, un rapido venir meno della distanza e della deferenza con la quale, l’Essere della Montagna, ha finora trattato questo “non immondo uomo del mondo”. 488 «Ve busso col bastone de corgnàle, che tutti i ossi róppe e non fa male! Io ve sturpio tutta la compostura, che rigalato v’ha matre Natura!» = ‘Io vi piccho con un bastone fatto di legno di corniolo, che rompe tutte le ossa senza fare male’ (il Diàntene riprende un antico detto popolare: «’L bastone de corgnàle rompe i ossi e non fa male», frequentemente impiegato per indicare l’estrema durezza del legno di questo “robusto arbusto”). ‘Io vi cambio i connotati («compostura» = ‘struttura, costituzione fisica’. Tale dialettalismo lessicale viene, per un fenomeno di “crasi”, dal latino compositura, ‘struttura’), che vi ha donato madre Natura’. 489 Il raro zoonimo popolare billo marino sta per ‘gru’. 490 «arìzza» = ‘rizza’. 491 «La volpe giù ppe’ ’l fosso arìzza’l pelo» = nota strofa del canto del Maggio di Gubbio. Il Diàntene, ironico, parla tra il serio ed il faceto. 492 «Io non so’ ’l billo, io te li sbróllo i ossi.» = Il Diàntene sta facendo propria una frase pronunciata, un tempo, dal defunto Alfredo Marini di Costacciaro (“Chillo de Fischietto”), che a quanto pare, si sarebbe minacciosamente rivolto ad una tacchina, o ad una gallina, che gli aveva fatto dei danni, promettendo a questa che egli non sarebbe stato altrettanto pietoso e magnanimo nei suoi confronti, come, invece, era stato in precedenza il tacchino (“billo”). L’espressione «[…] sbróllo i ossi.» vale, alla lettera: ‘rompo le ossa come si fa con i rami’, cioè spezzandole alla base (“stolla’” è il verbo popolare di maggior impiego per esprimere tale significato). Si noti, nella frase intimidatoria, il repentino passaggio del discorso del Diàntene dal voi, che esprime rispetto e considerazione, al tu che indica, sì, confidenza, ma, anche, un rapido venir meno della distanza e della deferenza con la quale, l’Essere della Montagna, ha finora trattato questo “non immondo uomo del mondo”. 493 «Ve busso col bastone de corgnàle, che tutti i ossi róppe e non fa male! Io ve sturpio tutta la compostura, che rigalato v’ha matre Natura!» = ‘Io vi piccho con un bastone fatto di legno di corniolo, che rompe tutte le ossa senza fare male’ (il Diàntene riprende un antico detto popolare: «’L bastone de corgnàle rompe i ossi e non fa male», frequentemente impiegato per indicare l’estrema durezza del legno di questo “robusto arbusto”). ‘Io vi cambio i connotati («compostura» = ‘costituzione fisica’), che vi ha donato madre Natura’. 494 Il raro zoonimo popolare billo marino sta per ‘gru’. 495 «L’òmo che viaggia se crede d’èsse ’n re, però, a la fine, s’acòrge solo che: “si, del mondo, vòl fa’, lu’, ’l girotondo: Scheggia, Costaciàro e Colpalombo!”» = ‘l’uomo si mette spesso in viaggio credendo così che gli passi ogni pena e dolore, per accorgersi alla fine che: “Se intende compiere il periplo del globo, gli basta approfondire la conoscenza dei luoghi che gli sono più familiari e che crede più umili e banali. “Si, del mondo, vòl fa’, lu’, ’l girotondo: Scheggia, Costaciàro e Colpalombo!”» = ‘antico detto ironico eugubino, rivolto ai paesi che sorgono ai confini dell’antico territorio della città, considerati luoghi rozzi e di poca, o nessuna, importanza. Così, con una nota di sano scetticismo verso ogni intrapresa umana, e l’invito a cercare la felicità nelle piccole cose e nell’umiltà (rappresentate metaforicamente dai tre piccoli centri abitati umbri) il Diàntene prende infine congedo dall’uomo moderno. 496 «“Si volemo tira’ avanti ’nte la vita, tòcca i bòvi arcarca’ pe’ la sallìta”». = ‘Se vogliamo continuare a procedere sul cammino della vita, bisogna di nuovo ricaricare i buoi (cioè gli uomini di fatica a di buona volontà), in vista della salita e delle future sfide che ci attendono. È questa l’ultima massima (desunta da una “proverbiale” gemma, appartenente a quell’inesauribile tesoro, che è costituito dalla saggezza popolare, condensata nel detto: “Tòcca carca’ -o arcarca’- i bòvi -o i tori- pe’ la sallìta”). che il Diàntene si sente di proferire, massima che è rivolta a tutti gli uomini ragionevoli e di buona volontà, perché continuino a seguire il retto cammino che hanno intrapreso, superando tutte le salite e le difficoltà che questo comporta. 497 «“San Rocco, San Rocco, ’na scarpa e ’nno zòcco!”. Col bastone San Rocco caminava, e col cane, che lo seguitava, col bordone giva Giacomino, e co’ ’nna scarsa, ’nna scarsèlla ’e vino. San Giacomo, che mai non s’amerìggia, drent’a ’na chiesa, lo venera La Schiggia. Ade’, ’nvéce, vòn via co’ l’apparécchio, màgnon, bévon, dòrmeno parécchio. Quanto, poi, a parla’ de religione, da chi ce crede, jje dìcheno cojjóne.» = ‘San Rocco, San Rocco, con una scarpa in un piede ed uno zoccolo in un altro! (antico detto popolare, indicante l’estrema povertà di pellegrini e viandanti d’un tempo). San Rocco procedeva con l’unico aiuto di un bastone e con la sola compagnia del cane che lo seguiva passo passo, San Giacomo Maggiore, invece, progrediva (tanto nella sfera fisica, quanto in quella spirituale) con una borraccia di pelle, una semplice borraccetta di vino. San Giacomo, il quale, nel suo transito terreno, non perse mai tempo a ristorarsi all’ombra «[…] che mai non s’amerìggia […]», è ora venerato dal popolo di Scheggia nella sua chiesa parrocchiale, intitolata ai Santi Filippo e Giacomo. La venerazione per San Giacomo trova ragione nel fatto che Scheggia, è, ab immemorabili, un centro di strada e di crocicchio viario, percorso, nei millenni, da stuoli di pellegrini “romei” e di viandanti in generale. Ora, invece, partono in aereo, mangiano, bevono e dormono quanto pare e piace loro. Quanto, poi, a suggerire loro di praticare esercizi spirituali, si rischia, mostrando di credere in quel che si fa, di essere considerati come dei visionari, o, peggio, dei veri coglioni’. 498 «Si ’l dimògno te vòi tène lontano, legno stregone sempre su le mano, si d’ogni strega, tu, te vòi slontana’, ’na furcina sott’al collo hai da porta’, ’n’inforchetta porta’, mo’ te lo dico, ad ogn’ora, porta’, devi de fico, mai, proprio mai, hai da voltàtte adiètro, non nomina’ mai ’l nòme de San Pietro, dei Santi, de la Madonna e Iddio, non invoca’ mai nòme, o fiòlo mio! Si tu ’nte ’n casa arporta’, vòi, tutti jj’òssi, quel che t’ho ’itto, fa in Croce dî Fossi! Tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, che da qui dista guàsi mille leghe, tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, docché arparate ce s’èn cinquanta freghe, tutto tu fa l’al Fosso che Chiacchiera, docché lavàtte tu pòssi d’ogni piàcchera, ché, sì, è chiamato, ’sto fosso, dettoquì, ché cento voci pìa l’acqua de diquì. A Lo Scòjjo de Streghe, ’no stregone, parla’ coi morti fece più persone. Si mantène, lontano, vòi Bofogno, pe’ sti lòchi passa per Sant’Antogno! Quanno ch’urla’ me sentirai tu: Vanne! Festa e fiera farai per San Giovanne. » = ‘Se tu, in questo tuo cammino, vuoi tenere lontano da te il maligno («dimògno», s.m., letteralmente: ‘demonio’), stringi tra le mani sempre un bastone di agrifoglio («legno stregone», loc., letteralmente: ‘legno che usano gli stregoni’), se, invece, ti vuoi sottrarre all’influenza malefica d’ogni strega, devi portare una piccola forca di legno («furcina», s.f.) di fico stretta sotto il mento e legata sopra il collo, devi portare, or ora te lo dico, sempre con te una piccola forca («’n’inforchetta», loc., letteralmente: ‘una forchetta’) di fico, non devi mai, proprio mai voltarti indietro («adiètro», avv., letteralmente: ‘addietro’) e assolutamente mai nominare, figliuolo mio, il nome di San Pietro (San Pietro è un santo, il cui nome denomina uno dei tre torrenti che formano La Croce dei Fossi. Non bisogna nominarLo, poiché, così facendo, Lo si evocherebbe sùbito, ed Egli avrebbe senz’altro a soccombere nel confronto con lo sterminato numero di presenze malefiche che infestano questo luogo) quello della Madonna e di Dio! Se, poi, vuoi riportare a casa tutte le ossa intere, fai tutto quello che ti ho detto(«’itto», agg. e part. pass., forma aferetica di ‘detto’, letteralmente: ‘detto, riferito, consigliato’) specialmente quando ti troverai nella località Croce dei Fossi di Monte Cucco (Croce dei Fossi, toponimo del Monte Cucco, che ricorre in due luoghi differenti del massiccio montuoso, letteralmente significante: ‘confluenza, a forma di croce, di tre corsi d’acqua’), luogo infernale del Monte Cucco, posto in cui s’intersecano numerose forze negative e regressive. Secondo antiche credenze, qui si sarebbe aperta anche una delle porte dell’inferno)! Fai tutto quello che ti ho detto anche presso Lo Scoglio delle Streghe (altro luogo demoniaco nei pressi della Croce dei Fossi, ove, periodicamente, si sarebbero date convegno le streghe), che, da qui dove noi siamo è distante quasi mille leghe («mille leghe», loc., ovverosia una grandissima distanza. Il Diàntene vuol dire che tra il mondo solare in cui Egli vive e l’inferno intercorre una distanza grandissima ed incolmabile), fai tutto quanto ti ho detto allo Scoglio delle Streghe, sotto al quale, in un giorno di pioggia, riuscirono a ripararsi ben cinquanta ragazze («freghe», s.f. pl., Lo Scoglio delle Streghe è una cascata arcuata del Fosso di San Pietro sotto la quale possono, in caso di maltempo, rifugiarsi ben cinquanta persone), fai tutto questo al Fosso che Chiacchiera (piccolo corso d’acqua del Monte Cucco, formante piccole cascate, le cui acque pare emettano cento voci differenti, simili a tante indistinguibili chiacchiere), nelle cui acque tu potrai nettarti di tutte le macchie («piàcchere», s.f. pl., < forma diminutiva, derivata dal latino plaga, ‘piaga, chiazza, macchia’) del corpo e dell’anima, un fosso che è così («sì», avv., ‘così, in questo modo’) chiamato in questo luogo («dettoquì», avverbio di luogo, ‘qui’) a causa del fatto che l’acqua della cascatelle che qui («diquì», avverbio di luogo, ‘qui’) precipità assume mille differenti voci. Un tempo, presso Lo Scoglio delle Streghe fece parlare con i propri defunti una grande quantità di persone (secondo un’antica credenza, propria del paese di Sigillo, col favore di questo luogo, ove esisteva una qualcosa di simile al mundus degli antichi Romani, ovverosia una specie di via pervia per passare nell’oltretomba, uno stregone sarebbe riuscito a mettere in diretta comunicazione molte persone con le anime dei propri cari estinti). Se, comunque, intendi mantenere sempre a distanza lo spirito del male («Bofogno», s.m., letteralmente Vofione o Vofiono, dio del Pantheo umbro, che presiedeva all’oscuro mondo infero), cerca di attraversare i luoghi che ti ho menzionato il 13 di giugno, giorno in cui si commemora San Antonio da Padova. Quando, poi, mi sentirai gridare: Vanne! (cioè: ‘Giovanni!’. Vanne e Vanni rappresentano altrettanti ipocoristici aferetici, l’uno di Giovanne e l’altro di Giovanni. Il Diàntene parla in codice, con un linguaggio crittato, egli, infatti, pronunciando la parola Vanne, vuol far credere che si tratti soltanto d’una forma verbale contratta, dell’imperativo, cioè, di vàttene. Vanne, infatti, oltreché essere impiegata dialetto locale, era un tipo verbale già in uso nell’italiano antico. Es.: Ludovico Ariosto, nell’Orlando Furioso, scrive: «[…] Or vanne, Astolfo […]», ‘ora vattene, vai via, parti, o Astolfo’) Festa e fiera farai tu il giorno di San Giovanni Battista (22 o 23 di giugno). In quel fausto giorno, infatti, favorevole agli uomini e alle loro imprese, vi è il benigno solstizio d’estate. In quel giorno, infatti, alla festa del santo si aggiunge “la fiera de San Giovanne”, il più grande fra i mercati annuali, ove potrai soddisfare ogni tua esigenza e desiderio’. Le nostre popolazioni contadine riassumevano il massimo della gioia nell’espressione: «Fa’ festa e fiera!», ovverosia, ‘nel giorno della festa di San Giovanni godersi anche la fiera, intitolata al Suo nome’. Dalle nostre parti, la fiera di San Giovanni era particolarmente grande e fastosa a Gubbio, luogo in cui, per commemorare il Battista, cui era dedicata l’antichissima cattedrale («dòmo», s.m., ‘duomo’), si vendevano campane completamente fatte di coccio (compreso il batacchio!) e fantasiosamente dipinte. 499 «Da l’acqua s’arpàreno, e dal vento, le streghe angrumàte a Boninvènto! A Boninvènto, sott’a ’na gran noce, ’n’ardunàta fanno ’n bel po’ atroce, ch’a tutto ’l mondo, al mondo ’ntero, nòce. A Boninvènto, sott’a ’n noce maschio, mìschieno le voce ’nte ’n gran ràschio. Si ’nte ’l caldaro loro ’n te vòi còce, da Domineddio lancia ’nna voce.» = ‘Le streghe si riparano dalla pioggia e dal vento (vale a dire dagli ostacoli che Dio frappone alle loro mille malefatte), rifugiandosi, raggruppate («Angrumàte», agg. e part. pass. Letteralmente ‘a formare un grumo, ‘aggrumate, raggrumate’, come il sangue secco), sotto il noce di Benevento («Boninvènto», s.m. Variante fonetica popolare dell’odierno poleonimo italiano Benevento)! A Benevento, sotto ad un grande, annoso noce “maschio”, vale a dire ‘sterile, infecondo’, le streghe si danno un convegno davvero atroce, che nuoce a tutto il mondo, al mondo intero. A Benevento, sotto ad un malefico ed infecondo noce, le mille voci discordanti, e reciprocamente accavallàntisi delle streghe, formano un unico insopportabile strepito sonoro («Ràschio», s.m., deverbale di ‘raschiare’), simile allo stridore emesso da due ferri che vengano fatti ripetutamente sfregare tra di essi. Se tu vuoi sottrarti alla loro intenzione di cuocere la tua anima nel loro caldaio, lancia un alto grido, e, con esso, invoca, in tuo aiuto, il Signore Iddio. Con quanto ha detto, il Diàntene intende parafrasare un famoso detto, proprio della cultura popolare delle nostre parti: “Sott’a acqua e sott’a vento, a la noce de Boninvènto!”. Assai famosa fu, in tutta Italia, la storia della “strega di Benevento”, da cui deve aver tratto origine anche tale ultima rima popolare. 500 «[…] Tutto intero […]»: il Diàntene, riferendo, qui, il significato dell’aggettivo intero, sia al cammino, sia all’“uomo moderno”, che si accinge a percorrerlo, vuol conferire ad esso un doppio significato, vale a dire ‘l’intero cammino’, ‘tutto il cammino’, ed ‘il cammino percorso in maniera indenne dall’uomo’, che, l’essere si augura, ne uscirà incolume. 501 Antico detto di Padule di Gubbio, che vuole avvertire colui il quale cammina di notte, e distingue a mala pena i contorni del terreno, che è preferibile poggiare il piede su superfici scure (che sono costituite perlopiù da erba o suolo solido), che su quelle chiare (le quali nascondono spesso pericolose buche e rischiosi avvallamenti). 502«Mo’ ’l vino bevemo ’nte ’sta gràlla: guàrdela bene e véde d’arcordàlla, ché, si l’arvédi, tanto essa è bella, ch’a meno ’n pòssi fa’ d’arconoscélla. Tanti la guàrdeno e ’n la védeno, e ch’è solo ’nna coppa lór se crédeno. Quanno la grazia, al’improvìso, vène, beato chi capisce e se la tène. Ma, più d’ogn’altra cosa, questa gràlla, col nome proprio te tòcca chiamàlla». = ‘Ora beviamo il vino in questo calice («gràlla», s.f., derivante, forse, da gròlla, a sua volta risalente, quale incrocio linguistico, a gradale e graal, la coppa eucaristica, ove secondo un’antica tradizione, raccolta, conservata e tramandata nell’ambito della cultura dei Templari, Gesù Cristo avrebbe bevuto il vino durante l’ultima cena e nella quale sarebbe stato raccolto il suo sangue nel corso della crocifissione): tu guardala bene e fai in modo di non dimenticartela, poiché, così facendo, essa ti apparirà talmente bella e sfolgorante di luce, che, se avrai a rivederla, non potrai fare a meno di riconoscerla. Tanti, invece, pur guardandola fissamente, non riescono a vederla nella sua vera essenza, e finiscono, allora, per credere che essa altro non sia che una banale coppa. Quando, infatti, la grazia scende all’improvviso su di noi, beato è solo colui, il quale, comprendendola appieno, la riceve e se la tiene, allo stesso modo in cui si custodisce una cosa di valore inestimabile. Ma, sopra ogni altra cosa, ricordati che per avere le grazie e i benefici che la gràlla, come coppa ricolma della bevanda salvifica reca con sé, è indispensabile chiamarla col suo nome vero ed autentico’.
503 In antichi documenti fabrianesi, il Monte Cucco è talvolta denominato «Monte Cucco o vero Monte Grande». 504 Nel paese marchigiano di San Donato, il Monte Cucco è identificato con il nome di Monte Testagrossa. 505 La Fossa Secca, torrente del versante occidentale del Monte Cucco. 506 Chucchus, nome proprio del Monte Cucco, rinvenibile in documenti medioevali. 507 «Nuncupata» = ‘denominata’. Termine d’ambito giuridico, impiegato in taluni documenti antichi, riguardanti il Monte Cucco. 508 È il Gigante Monte Cucco, citato in questo racconto dialogico. 509 «Mucco» = ‘vitello maschio, torello’. 510 In alcune parlate locali, il ciclamino prende il nome di cucco. 511 In molti dialetti dell’area del Monte Cucco, con il termine cucco si designa il ‘cucùlo’. 512 Così è detta, popolarmente, la Risorgente Scirca, che ha una portata media annua di 190 litri al secondo. 513 «Briglie» = ‘opere di captazione della sorgente, che imbrigliano l’energia cinetica delle acque sorgive di Monte Cucco, realizzate in epoca fascista’. 514 «“Faggeto Tondo”, “Pìgnola” e “Mandràcce”» = ‘mediotoponimi del versante occidentale del Monte Cucco’. 515 «“Fida”» = ‘mediotoponimo del versante orientale di Monte Cucco’. 516 «“Fosso del Cupo”» = ‘torrente che scorre nel versante orientale del Massiccio di Monte Cucco, formando la celebre Valle delle Prigioni’. 517 «Scirca» = ‘Villa Scirca, frazione di Sigillo’. 518 «“Fonte” nascendo “d’Acqua Fredda”» = ‘scaturendo dalla sorgente di Acqua Fredda’. 519 La Forra di Rio Freddo fu conosciuta, in passato (e lo è, in alcuni luoghi, come Pascelupo, ancora adesso), col nome di Bocca Nera. 520 L’Orto della Cicuta è una località, sorgente sopra la Balza o Spaccatura delle Lécce. Il suo nome non le deriva, probabilmente, dalla locale presenza della cicuta (Conium maculatum), bensì di quell’ombrellifera, conosciuta con il nome di fèrula (Ferula sp.). 521 «Pluto» = ‘Plutone, re delle regioni infere e custode delle ricchezze in esse nascoste’, o, anche, ‘altro nome e personificazione dell’Ade’. 522 «Orfeo» = ‘Òrfeo, leggendario poeta e musico tracio, che discese nell’Ade e ne ritornò incolume’. Home Page |